Pasado Abierto. Revista del CEHis. Nº19. Mar del Plata. Enero-Junio de 2024.
ISSN Nº2451-6961. http://fh.mdp.edu.ar/revistas/index.php/pasadoabierto
Reseña de Ciaramitaro, Fernando (2022). Santo Oficio imperial. Dinámicas globales y el caso siciliano. Ciudad de México: Universidad Autónoma de la Ciudad de México / Barcelona: Gedisa, 283 páginas. ISBN 978-607-8866-22-9
Giovanni Romeo
Università degli Studi di Napoli Federico II, Italia
Recibido: 20/2/2024
Aceptado: 29/2/2024
ARK CAICYT: http://id.caicyt.gov.ar/ark:/s24516961/8bq27s1qd
Palabras claves: Tribunal, resistencia, búsqueda.
Parole chiave: Tribunale, Resistenza, Ricerca.
Keywords: Tribunal, resistance, research.
L’interesse storiografico per il funzionamento e le strategie dell’Inquisizione nella Sicilia moderna non accenna a diminuire, nel solco di una tradizione di studi vigorosamente ripresa negli ultimi decenni, anche attraverso la valorizzazione di nuove fonti. Il ricco, recente libro di Giovanna Fiume ne è stata una preziosa testimonianza (Fiume, 2021; Romeo, 2002). Oltre a rivisitare la storia degli straordinari graffiti vergati dai prigionieri dell’Inquisizione siciliana e venuti alla luce da oltre un secolo nelle carceri dove erano detenuti, la studiosa ha saputo presentare una ricostruzione accurata e convincente dell’operato del tribunale.
Alla storia della celebre istituzione si richiama anche la ricerca di Fernando Ciaramitaro che qui si discute, ma da un diverso punto di vista. Al centro della sua attenzione sono sì le strategie e le attività dell’Inquisizione in Sicilia, ma i loro sviluppi sono confrontati sistematicamente con le dinamiche complessive della storia del celebre tribunale istituito nel 1478 su iniziativa di Ferdinando il Cattolico. Il cuore della ricerca è infatti il confronto serrato tra i ritmi e gli obiettivi delle attività dell’Inquisizione spagnola nei distretti europei ed extraeuropei in cui operarono i suoi tribunali e le particolarità della situazione siciliana. Le mappe precise e dettagliate inserite nel testo (85-89), accompagnate da aggiornate presentazioni delle attività di ciascuno di essi (89-143), restituiscono un’immagine nitida ed efficace dell’operato dei temuti giudici e delle molteplici questioni che essi si trovarono a fronteggiare (Ciaramitaro, 2022; Traslosheros, 2023; Stallaert, 2023).
Il capitolo più denso del libro è a mio avviso quello finale, dedicato alle attività dell’Inquisizione in Sicilia nei circa duecento anni in cui operò, con particolare attenzione ai rapporti, per niente facili, che i suoi rappresentanti intrattennero con le istituzioni isolane. Il nodo cruciale della sua azione repressiva fu ovunque, secondo Ciaramitaro, la capacità di assecondare e rafforzare le strategie della monarchia spagnola, di seguire le logiche imperiali che essa cercò di promuovere in tutti i vasti territori conquistati. Non fu un lavoro semplice, neppure per gli inquisitori chiamati a tutelare l’ortodossia in Spagna.
Ancor più difficoltoso fu il radicamento del tribunale in Sicilia. Fin dall’esordio cinquecentesco fu evidente che l’isola sarebbe stata un osso duro per Madrid, anche per la solida rete di poteri locali, secolari ed ecclesiastici, pronta a sfidare la nuova istituzione dall’alto delle proprie riconosciute tradizioni. Per chi studia la storia delle tre Inquisizioni attive nell’Europa moderna non è una novità. Anche se nel loro operato non mancano differenze di rilievo, esse dovettero sfidare, sia nella penisola iberica, sia in quella italiana, un’ostilità generalizzata, diffusa non soltanto tra i laici, ma anche tra quasi tutti gli ecclesiastici.
Il confronto con l’Italia mi sembra istruttivo. L’impianto della fitta rete di tribunali destinata dalla Congregazione del Sant’Ufficio a controllare la vita religiosa dei suoi abitanti non fu mai visto di buon occhio dagli interessati. Né nell’Italia spagnola – si pensi a quanto fu tormentato l’avvio delle attività inquisitoriali nel regno di Napoli e nel ducato di Milano – né nel resto della penisola le sue battaglie raccolsero consensi, neppure in gran parte del clero. Qui lo studioso avrebbe dovuto mostrare, a mio avviso, maggiore cautela nel ricalcare conclusioni da tempo messe in discussione, come quelle che enfatizzano semplicisticamente i successi della Congregazione del Sant’Ufficio (mi riferisco in particolare al bilancio tracciato nelle pagine 135-141, che secondo me non dà il giusto risalto ai limiti e alle contraddizioni della presenza inquisitoriale in Italia sin dagli eroici anni ’70 del Cinquecento).
Per tornare alla Sicilia, contro le logiche imperiali, che sulla carta ebbero nel ruolo e nello zelo degli inquisitori un punto di riferimento preciso, vi si coalizzò efficacemente un variegato schieramento di persone e istituzioni ostili. Quelle resistenze non furono isolate, come capitò anche in Sardegna e nell’Italia del Centro-Nord, che peraltro restò per tutta l’età moderna la sola parte della penisola dove gli inquisitori generali riuscirono ad impiantare i temuti tribunali. Si può estendere anche ad essa l’amara considerazione contenuta in una lettera indirizzata nel 1571 dall’inquisitore di Sardegna, Alonso de Lorca, ai vertici madrileni del tribunale: i sardi, scrisse, aborrivano l’Inquisizione “màsque lo infierno” (Black, 2009: 51). Malgrado il coordinamento dei cardinali del Sant’Ufficio, che fu intenso e puntuale soprattutto nel Cinquecento, neppure in quegli anni ottenne risultati particolarmente significativi la pressione sconosciuta esercitata dalla nuova rete giudiziaria su un’ampia ed eterogenea gamma di abusi, tradizionalmente tollerati o tenuti a bada alla buona dal clero locale.
Eppure si avviò proprio allora, forse per la prima volta nella storia italiana, un progetto ambizioso, che mirava ad estirpare per sempre modi di vita diffusi ovunque, radicati nella quotidianità, ma ritenuti ormai incompatibili con l’ortodossia. Molto presto, tra l’altro, furono gli stessi cardinali del Sant’Ufficio a classificare quei comportamenti e quelle intemperanze come “cose piccole”, nell’intento di dissuadere inquisitori e vescovi zelanti dall’importunarli per trasgressioni di rilievo tanto modesto. Avvisaglie così precise sottintendevano forse anche la preoccupazione crescente dei vertici del Sant’Ufficio per la freddezza della popolazione e di buona parte dello stesso clero verso il ruolo di quei tribunali. La diffusa avversione di laici ed ecclesiastici nei loro confronti costituì in Italia fin dal tardo Cinquecento uno dei problemi più seri per il buon funzionamento della nuova rate giudiziaria. Basti qui ricordare i numerosi episodi di violenza che si registrarono in quel giro di anni contro gli inquisitori[1].
Rispetto a queste dimensioni della storia del Sant’Ufficio i risultati delle ricerche sulla Sicilia condotte da Ciaramitaro sono, forse al di là dell’impostazione stessa del volume, una testimonianza altrettanto solida. Mi sembrano indicative, ad esempio, la frequenza e la pericolosità delle iniziative con cui l’isola manifestò nel corso del Seicento la propria opposizione al tribunale. Contava davvero poco che il suo funzionamento lasciasse molto a desiderare, come mostrò impietosamente tra il 1633 e il 1638 la visita del Sant’Ufficio di Palermo (190)[2]. I pesanti limiti imposti ai suoi giudici dalla forte ostilità di istituzioni, gruppi e singoli nei loro confronti non sono peraltro una sorpresa per chi li confronti con la travagliata storia dell’Inquisizione nell’Italia del Cinque-Seicento.
Già negli anni di più intenso impegno giudiziario dei loro delegati sul territorio della penisola, grossomodo databili all’ultimo trentennio del Cinquecento, il radicamento di quei tribunali nella società civile fu problematico, come d’altronde il complesso delle iniziative di riforma avviate dalla Chiesa tutta. Il caso del regno di Napoli, che fu insieme a quello della repubblica di Venezia il banco di prova più difficile per la Congregazione del Sant’Ufficio e per la Curia romana tout court, appare oggi solo come la punta di un iceberg. È una questione che a mio avviso non riguarda solo il funzionamento dei tribunali inquisitoriali. All’indomani della chiusura del concilio tridentino, nel paese del papa la Chiesa, nelle sue articolazioni essenziali, a cominciare dalla rete vescovile, appare in affanno.
Nello stesso Stato pontificio, sin dal tardo Cinquecento le spinte riformatrici di una parte delle sue autorità centrali non ottengono risultati particolarmente brillanti. Per accennare solo a una dimensione del problema, nemmeno nelle vicinanze di Roma e nel Lazio ottengono i risultati sperati i due strumenti utilizzati con maggiore frequenza per vincere pigrizie e resistenze del clero e dei fedeli. Mi riferisco alle visite apostoliche e alle nomine di vicari apostolici nelle diocesi in cui l’impegno dei vescovi è insufficiente e trascura disordini di rilievo, come l’inadempienza diffusa del precetto pasquale e il mancato rispetto del celibato da parte di molti sacerdoti. Anche contro i delegati romani hanno facilmente la meglio le resistenze dei laici restii a confessarsi anche una sola volta all’anno ai rispettivi parroci e quelle dei tanti uomini di Chiesa attaccati alle proprie famiglie proibite.
Per fare solo un esempio tra i tanti, le differenze tra l’impotenza della stragrande maggioranza dei vescovi del regno di Napoli e dello Stato pontificio appaiono davvero esigue, anche nel vivo dell’età postridentina. Le lettere sconsolate e talvolta drammatiche che arrivano nell’ultimo trentennio del Cinquecento alle nuove Congregazioni romane istituite per rafforzare i processi di riforma (quella del Concilio e quella dei Vescovi e Regolari) ne sono uno specchio fedele. Due casi tra i tanti – uno abruzzese e uno laziale – possono essere qui rapidamente ricordati. Il più vivace è la vera e propria odissea vissuta nel 1577-1578 da Ercole Lamia, un vicario apostolico incaricato dalla Congregazione dei Vescovi e Regolari di riportare l’ordine nella diocesi aquilana. Obiettivo della sua nomina era la difesa del vescovo locale, un uomo debole e anziano finito nelle mani di una vera e propria banda di potenti ecclesiastici. La guidavano i canonici della cattedrale e gli arcipreti locali e la sostenevano apertamente i rappresentanti della città. Tuttavia, nel giro di pochi mesi, al povero Lamia, logorato dalle false denunce inoltrate nei suoi confronti alla Congregazione che lo aveva nominato e terrorizzato dalle ripetute minacce di morte ricevute, rimase una sola alternativa: fuggire da quell’inferno (Mancino-Romeo, 2013: 128-129).
Non diversa appare la situazione di molti vescovi laziali. Le contraddizioni lamentate ovunque dai colleghi impegnati nel governo delle Chiese locali in Italia sono ancora più insormontabili nella loro regione proprio per la vicinanza di Roma. È molto facile per i laici e gli ecclesiastici restii ad adeguarsi alle nuove regole trovare proprio nella città del papa comode vie di fuga. Sicché ai prelati attenti alle esigenze di rinnovamento non resta altro che sfogare la propria impotenza. Lamentele inutili, appena accennate, per “la porta di Roma sempre aperta” punteggiano spesso le loro relazioni periodiche ad limina Petri.[3] Rispetto a un quadro così desolante neanche l’Inquisizione poté o volle far sentire il proprio peso. Il giudizio severo sulla impossibilità di trovare tracce credibili della cosiddetta Riforma cattolica, lucidamente documentata in un libro recente di Massimo Firpo, si può estendere senza dubbio alcuno anche al progetto ambizioso concepito dagli inquisitori generali all’indomani della sanguinosa caccia agli eretici, chiusa con il pontificato di Pio V (Firpo, 2022).
Se limiti così vistosi alla centralità delle competenze del Sant’Ufficio ne ostacolarono quotidianamente i più elementari meccanismi di funzionamento anche nello Stato pontificio, non stupisce la circostanza che contraddizioni non dissimili angustiarono in Sicilia gli inquisitori sin dal tardo Cinquecento. Ad alcune di esse, indicative della premura della Congregazione del Sant’Ufficio di sostenere nei casi controversi il ruolo dei vescovi siciliani, ho accennato nella recente recensione dedicata al lavoro di Giovanna Fiume. Ce ne sono rimaste, peraltro, tracce non meno importanti, relative alla capacità di altre influenti Congregazioni romane, istituite all’indomani della chiusura del concilio di Trento, di insinuarsi nei rapporti tra Chiesa e Stato in Sicilia.
Penso in primo luogo a un richiamo che i cardinali della Congregazione dei Vescovi e Regolari inoltrarono nel 1590 al vescovo di Mazara del Vallo in relazione a una sua iniziativa, a loro avviso del tutto sconsiderata[4]. Il prelato, da poco insediatosi nella diocesi, aveva ordinato ai parroci e ai confessori di escludere dalla partecipazione ai sacramenti tutti coloro che avessero macellato carni vaccine, in violazione di una prammatica delle autorità secolari. Il singolare provvedimento, motivato dal rilievo, quantomeno discutibile, che si trattava di pubblici peccatori, lasciò forse di stucco i vertici del potente dicastero, sorpresi dall’iniziativa e delusi da un vescovo ritenuto “dotto e discreto”.
Non sembra possibile spiegare altrimenti una circostanza inconsueta: la prima decisione, che ordinava al prelato di revocare il provvedimento, pur regolarmente verbalizzata nel resoconto della seduta in cui fu adottata, non fu seguita, come era usuale, dalla notifica all’interessato. La lettera a lui indirizzata non fu mai spedita, forse per l’imbarazzo e il disagio di dare una lezione a un uomo di Chiesa fidato[5]. Ci vollero alcune settimane per motivare meglio l’ordine, che pure restò immutato, e per spiegare al vescovo di Mazara del Vallo il suo errore, pur senza usare la dura espressione presente nella bozza cestinata: secondo la Congregazione coloro che avevano ignorato la prammatica dei ministri del re non avevano commesso peccato mortale. Le loro erano state semplici trasgressioni di provvedimenti adottati dalle autorità secolari e perciò solo queste ultime avrebbero potuto fissare e irrogare le relative pene. Il prelato era perciò invitato, ma in modo meno perentorio rispetto alla precedente formulazione, a revocare il provvedimento (“sarà contento… rivocar qualsivoglia ordine che con ciò haverà dato a i curati et confessori”[6]).
L’attenzione con cui ai vertici di una delle più influenti Congregazioni romane si cercò di evitare in Sicilia l’intromissione dei vescovi nella sfera delle competenze regie non impedì peraltro ai vertici dello Stato della Chiesa di perseguire anche nell’isola accorte strategie di ampliamento dei propri poteri. Il rilievo che assunse sin dal 1622 in Sicilia – e anche in Sardegna – una Congregazione nuova come quella dell’Immunità, destinata ad avere un ruolo devastante nell’Italia moderna, non fu diverso da quello esercitato in quasi tutta la penisola (soltanto la Repubblica di Venezia fu in grado di impedire che il diritto di asilo diventasse per alcuni secoli una sfida provocatoria alla giustizia degli antichi Stati in Italia). In base a un prezioso inventario topografico pubblicato nel 2005, è possibile verificare che tra il primo Seicento e il primo Settecento la Chiesa seppe aprirsi anche in Sicilia, grazie al nuovo dicastero, spazi imprevedibilmente ampi, ovunque, sia nelle città, sia nei paesi[7].
È impossibile approfondire qui la questione, ma è evidente che grazie a dati così puntuali anche le ricerche sul Sant’Ufficio potranno aprirsi a nuovi orizzonti. Penso in particolare a un filone di indagini promettente, quello avviato recentemente da Riccardo Rosolino sul problema del dilagare strumentale dei familiari del Sant’Ufficio nell’Inquisizione siciliana. Ottenere quel privilegio non era solo una garanzia di impunità per chi intendeva svolgere attività criminose, ma poteva diventare anche un buon affare per chi chiedeva e otteneva prestiti e approfittava del privilegio di foro per non restituire le somme incassate. Che qualcuno di essi utilizzasse anche il diritto d’asilo per sfuggire ai suoi obblighi è un aspetto della presenza della Chiesa nella Sicilia moderna che potrebbe aprire nuove prospettive di ricerca (Rosolino, 2023a; 2023b). Anche per questi problemi, peraltro, lavori attenti e documentati come quello di Fernando Ciaramitaro sono un buon punto di partenza.
Bibliografía
Black, Christopher (2009). The Italian Inquisition. New Haven-London: Yale University Press.
Ciaramitaro, Fernando (2022). Santo Oficio imperial. Dinámicas globales y el caso siciliano. Ciudad de México-Barcelona: Universidad Autónoma de la Ciudad de México-GEDISA Editorial.
Firpo, Massimo (2022). Riforma cattolica e concilio di Trento. Storia o mito storiografico? Roma: Viella.
Fiume, Giovanna (2021). Del Santo Uffizio di Sicilia e delle sue carceri. Roma: Viella.
Loi, Salvatore (2013). Storia dell’Inquisizione in Sardegna. Cagliari: AM&D Edizioni.
Loi, Salvatore y Ciaramitaro, Fernando (2021). L’Inquisizione in Sardegna: un quadro socio-istituzionale. En Ciaramitaro, Fernando y Rodrigues-Lourenço Miguel, Historia imperial del Santo Oficio(siglos XV-XIX) (pp. 337-373). Ciudad de México-Lisboa: B. Artigas-UACM-Cátedra de EstudiosSefarditas A. Benveniste-Red Columnaria.
Mancino, Michele y Romeo, Giovanni (2013). Clero criminale. L’onore della Chiesa e i delitti degli ecclesiastici nell’Italia della Controriforma. Roma-Bari: Laterza.
Romeo, Giovanni (2002). L’Inquisizione nell’Italia moderna. Roma-Bari: Laterza.
Romeo, Giovanni (2014). Denunciare i delitti contro la fede nell’Italia della Controriforma: la storia di un fallimento. En Charageat, Martine y Soula,Mathieu (Dir.).Dénoncer le crime du Moyen Âgeau XIX siècle (pp. 67-81).Pessac: MSHA.
Romeo, Giovanni (2020). L’isola ribelle.Procida nelle tempeste della Controriforma. Roma-Bari: Laterza.
Rosolino, Riccardo (2023a). Tra fedeltà e fiducia. Lo Stato, l’Inquisizione e le relazioni giurate. Studi storici, LXIV, pp. 289-314.
Rosolino, Riccardo (2023b). Preserving Trust: Strenght of Contrasts and Abuses of the Spanish Inquisition. Journal of Interdisciplinary History, LIV, pp. 67-81.
Stallaert, Christiane (2023). Recensione di Ciaramitaro, Fernando (2022). Ciaramitaro, Fernando (2022). Santo Oficio Imperial. Dinámicasglobales y el caso siciliano. México: UniversidadAutónoma de la Ciudad de México-Gedisa-Editorial. PasadoAbierto.Revista del CEHIS, N. 18, pp. 338-441.
Traslosheros, Jorge (2023). Recensione di Ciaramitaro, Fernando (2022). Santo Oficio Imperial. Dinámica sglobales y el caso siciliano. México: Universidad Autónoma de la Ciudad de México-Gedisa-Editorial. Estudis. Revista de Historia moderna, N. 49, pp. 471-475.
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[1] Per la storia dell’Inquisizione in Sicilia vedi ovviamente la bibliografia ricca e aggiornata del libro di Ciaramitaro (2022: 217-283); per il tribunale sardo, che solo negli ultimi decenni è stato oggetto di una rinnovata attenzione degli studiosi, vedi almeno Loi (2013) e il più recente intervento pubblicato dallo stesso studioso e da Ciaramitaro (2021: 337-373). Quanto ai modesti risultati raggiunti dall’Inquisizione romana, rinvio, oltre che a una mia sintesi (Romeo, 2002), a due contributi apparsi in Francia, che rispecchiano i primi risultati di ricerche sistematiche condotte tra il 2003 e il 2013 (Romeo, 2014: 189-201) e successivamente (Romeo, 2020: 83-94). Per i numerosi atti di violenza compiuti in Italia tra il 1553 e il 1618 a danno di inquisitori e/o di frati dei conventi dove essi operavano, rinvio a Mancino-Romeo (2013:111-112).
[2] Mi sembra fortemente indicativo dello stato di abbandono in cui versava il tribunale il mancato svolgimento delle visite distrettuali, che avrebbero dovuto offrire agli inquisitori indicazioni preziose per un efficace controllo del territorio.
[3] Si vedano ad esempio gli amari e polemici rilievi con cui si chiudeva nel 1591 la relazione trasmessa al papa dal vescovo di Tivoli, l’anziano Giovanni Andrea Croci: le iniziative con cui cercava di riportare all’ordine lo smaliziato arcidiacono locale erano sistematicamente bloccate dalle abili contromisure romane dell’interessato (Archivio Apostolico Vaticano, d’ora in avanti AAV, Congregazione del Concilio, Relationesdioecesium, 800 A). Il riferimento alla “porta di Roma sempre aperta” si legge anche, nello stesso giro di anni, negli sfoghi dei prelati chiamati a guidare le diocesi meridionali. È il caso del vescovo di Montepeloso, in Lucania, che nel gennaio del 1581 accennava, in una lettera alla Congregazione dei Vescovi e Regolari, alla “porta di Roma così aperta… che non ho core di procedere nelli delitti, perché subbitofugeno in Roma” (AAV, Congregazione dei Vescovi e Regolari, d’ora in avanti CVR, Positiones, 1581, F-P).
[4] AAV, CVR, Registra Episcoporum, 19, cc. 192r, seduta del 15 giugno 1590, e 217r, seduta del 3 luglio 1590.
[5] È quanto si legge nel manoscritto appena citato, c. 192r, in una nota marginale.
[6] Ancora nello stesso manoscritto, c. 217r.
[7] AAV, Congregazione dell’Immunità Ecclesiastica, Libri Litterarum, voll. 1-45, voll. 7, a cura di G. Roselli e F. Di Giovanni, Città del Vaticano, 2005.
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