Pasado Abierto. Revista del CEHis. Nº16. Mar del Plata. Julio-diciembre 2022.
ISSN Nº2451-6961. http://fh.mdp.edu.ar/revistas/index.php/pasadoabierto
Reseña de Fiume, Giovanna (2021). Del Santo Uffizio in Sicilia e delle sue carceri. Roma: Viella, 344 páginas. ISBN 978-88-3313-812-1.
Giovanni Romeo
Università degli Studi di Napoli Federico II, Italia
Recibido: 26/10/2022
Aceptado: 04/11/2022
Palabras clave: Sant'Ufficio, Sicilia, graffiti dei carcerati
Keywords: Sant'Ufficio, Sicily, prisoners’ graffiti
C’è qualcosa di inusuale, se non di sorprendente, nel libro di Giovanna Fiume che discuto in queste pagine, anche per chi, come lo scrivente, si interessa da molti anni di problemi molto simili a quelli affrontati dalla studiosa. Non sono certo gli argomenti dibattuti la novità più indicativa. Entrambi i temi su cui ruota il saggio – i graffiti realizzati sulle pareti delle carceri da un gruppo di detenuti palermitani del Sant’Ufficio e l’operato dell’Inquisizione spagnola nella Sicilia moderna – sono da tempo oggetto di accurate ricerche.
Per i graffiti, in parte scoperti agli inizi del Novecento, ma successivamente ricoperti di nuovo di intonaco e tornati al centro dell’attenzione solo in tempi più recenti, grazie a ulteriori scoperte (Sciascia, 1977), il recupero integrale è stato avviato solo nel 2003 (Foti, in corso di stampa). Si tratta di immagini, per lo più ma non soltanto di natura religiosa, di versi e frasi in più lingue, di cenni alla vita in carcere e all’attività dell’Inquisizione, di segni tra i più vari. Nel frattempo, inoltre, non solo a seguito di così importanti ritrovamenti, l’interesse degli studiosi per le svariate questioni storiche poste da una fonte così straordinaria è cresciuto, e da più punti di vista.
Si sa di più, per fare solo qualche esempio più direttamente collegato ai graffiti palermitani, sulle condizioni di vita nelle carceri – inquisitoriali e non – e sul rilievo assunto dalla propaganda religiosa nel governo quotidiano dei prigionieri. Ricerche accurate, inoltre, hanno puntualizzato il ruolo di primo piano avuto dalle immagini sacre nella vita quotidiana dell’Europa cattolica e consentono perciò di collocare attività espressive così singolari in un quadro più ampio e ricco di spunti.[1]
Acquisizioni ancor più importanti sono venute dal rinnovato interesse per le attività e le strategie delle tre inquisizioni operanti in età moderna, anche per la maggiore attenzione riservata all’amministrazione della giustizia penale tout court. Il quadro delle conoscenze sul funzionamento di tribunali celebri e studiati ancora poco e male, rispetto al loro rilievo, si è allargato e affinato. Questa nuova stagione di studi non poteva non riflettersi sulla fisionomia e le strategie repressive dell’Inquisizione di Sicilia.
Al grave handicap della distruzione del suo archivio, disposta nel 1782, nell’anno della sua solenne abolizione (La Mantia, 1977 [1886]) si è risposto con ricerche complicate, ma ricche di risultati. Una serie di indagini innovative, condotte con ampiezza di orizzonti e di scavi archivistici, ne ha messo in luce dimensioni tra le più varie. È impossibile ovviamente discuterne in questa sede, ma vorrei almeno ricordare il rilievo dei contributi di due studiosi che sfortunatamente ci hanno lasciato troppo presto: mi riferisco a Vittorio Sciuti Russi e a Maria Sofia Messana.[2]
Alla vivacità e al rilievo di questa recente stagione di studi il nuovo libro della Fiume aggiunge un’ampiezza inconsueta di orizzonti storiografici e di prospettive di ricerca. Tuttavia, per la ricchezza delle questioni affrontate nel libro e per lo spazio che richiederebbe una loro discussione approfondita, mi limiterò in queste pagine a qualche riflessione e a qualche confronto sui due temi principali che vi si incrociano: i graffiti vergati dai prigionieri dell’Inquisizione di Sicilia e le strategie dei giudici che ne condizionarono così pesantemente l’esistenza. Comincio dalle straordinarie immagini arrivate rocambolescamente fino a noi.
In esse si esprimono sentimenti e atteggiamenti tra i più vari: fiducia nella giustizia divina o disperazione, cenni alla pesantezza delle condizioni di vita nel carcere e alle rispettive disavventure giudiziarie, ma anche richiami alle vicende del mondo esterno (da Lepanto agli auto de fe organizzati dagli inquisitori palermitani). Tra i loro autori figura inoltre un gruppo di rappresentanti di primo piano della cultura e della poesia siciliana del Cinque-Seicento, che in carcere trovarono il modo per esprimere i propri sentimenti e la propria vena artistica.
C’è davvero poco da aggiungere a questa parte del libro, che ricostruisce con misura ed equilibrio, in pagine spesso avvincenti, schegge di vita quotidiana di grande suggestione. Riguardo ad essa, tra l’altro, sono davvero esigue le possibilità di confronto, anche per chi, come lo scrivente, ha una lunga familiarità con gli archivi inquisitoriali italiani, in particolare tra la seconda metà del Cinquecento e la fine del Seicento. In nessuno di essi, come pure in nessuna delle serie di preziose fonti coeve studiate nel corso dell’ultimo ventennio nell’Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede, ho ritrovato tracce in qualche modo paragonabili alle straordinarie testimonianze lasciate dai detenuti rinchiusi nelle carceri palermitane dell’Inquisizione.
Ai riferimenti della studiosa ai casi di Saragozza e Narni – le sole città in cui sono affiorati, sulle pareti delle rispettive sedi inquisitoriali, schizzi e disegni di prigionieri – non saprei aggiungere altre indicazioni. Non conosco reazioni così vivaci ed espressive al peso della vita carceraria, né nei presunti responsabili di delitti contro la fede, né nelle tante vicende di detenuti ristretti nelle tante altre prigioni che punteggiano il territorio dell’Italia moderna (penso ad esempio alle ricche fonti giudiziarie relative alle attività del tribunale della Nunziatura di Venezia o a quelle che illustrano la vita nelle carceri della Gran Corte della Vicaria, a Napoli). È molto probabile, peraltro, che la mancanza di queste tracce sia solo il frutto di interventi di ristrutturazione successivi alle abolizioni dei tribunali inquisitoriali e, per quanto riguarda le altre carceri, ad analoghe trasformazioni edilizie legate al riuso di quelle sedi. Per ora, in ogni caso, i pochi confronti possibili riguardano un aspetto presente solo in misura piuttosto limitata nelle straordinarie fonti recuperate a Palermo.
Nella vita quotidiana amara e spesso incandescente di tutte le prigioni dell’Italia moderna – dove carcerieri e carcerati si misurano abitualmente con eccessi e abusi di ogni genere – le immagini religiose, le devozioni e i richiami alla fede sono spesso al centro di discussioni, liti e denunce. Di solito, però, la prospettiva è molto diversa dai toni e dai contenuti che prevalgono nelle scritte dei detenuti siciliani. Dominano nettamente tra i prigionieri atteggiamenti di aspra polemica, legati, oltre che alla crudezza della reclusione, alla diffusa ostilità verso il corredo di oggetti e immagini religiose di cui ogni carcere è dotato. Tra tutti i carcerati, non solo tra le vittime dell’Inquisizione romana, è forte – e spesso sprezzante o volgare – il rifiuto di una propaganda religiosa percepita come mero strumento di potere, come difesa dello stesso assetto istituzionale ingiusto da cui è scaturita la loro detenzione. Perciò di solito pesanti atti di iconoclastia ne punteggiano ovunque la vita quotidiana.
Il caso di Napoli mi sembra indicativo. Motivi di spazio mi impediscono qui di approfondire la questione come meriterebbe. Un aspetto tuttavia è evidente: la presenza di immagini e simboli religiosi nelle carceri cittadine di cui si conosce meglio, per l’età moderna, la vita quotidiana – quelle del Sant’Ufficio arcivescovile e quelle della Vicaria criminale, il più influente tribunale penale di Stato della capitale del viceregno – è documentata essenzialmente in negativo. Nella più grande e complicata città italiana di età moderna l’invito al pentimento e alla conversione che in esse si esprime è per lo più oggetto di dissenso e di rabbiosa protesta da parte dei reclusi. Frasi blasfeme e atti di violenza, spesso accompagnati da precise motivazioni ‘ideologiche’, sono pane quotidiano per i giudici, e non solo per quelli del Sant’Ufficio. Nelle carceri napoletane, indipendentemente dalla istituzione da cui esse dipendono, gli atteggiamenti più comuni nei confronti della religione sono fortemente critici. Prevale tra i loro ospiti la fredda, precisa consapevolezza che sia lo Stato, sia la Chiesa usano i simboli sacri solo a sostegno del proprio potere.[3]
Non meno importante, poi, per chi studia le inquisizioni attive in età moderna, è il contributo apportato dal libro della Fiume alla ricostruzione delle attività e delle strategie del tribunale siciliano. La grande padronanza delle fonti e della storiografia consente alla studiosa di presentarne un quadro vivace e convincente, nei limiti consentiti dalla perdita secca degli atti processuali integrali. Allo stato attuale delle mie conoscenze, le integrazioni di maggior rilievo alla ricostruzione presentata dall’autrice potrebbero venire soprattutto dalla documentazione conservata negli archivi di due Congregazioni romane. Mi riferisco in primo luogo, ovviamente, alle fonti relative alle attività dei cardinali del Sant’Ufficio. Accessibili da oltre venti anni nell’Archivio della Congregazione della Dottrina delle Fede, seppur largamente depauperate dalle pesanti sottrazioni operate in età napoleonica, esse offrono indicazioni preziose sui rapporti degli inquisitori di Sicilia con i cardinali del Sant’Ufficio. Questi ultimi, pur muovendosi con la cautela necessaria nei confronti di un tribunale potente, che risponde quasi soltanto alla corona spagnola, non possono esimersi, quando è necessario, dal fornire ordini o suggerimenti ai responsabili delle sedi locali che essi coordinano o a vescovi e altri prelati siciliani.
I casi più comuni riguardano i ministri del Sant’Ufficio delegato operanti a Napoli, con poteri estesi all’intero viceregno. Non di rado essi segnalano ai cardinali della Congregazione complicazioni o difficoltà nei rapporti con gli inquisitori di Sicilia e così facendo li pongono di fronte a decisioni non sempre agevoli. In generale, riguardo alle loro richieste di appoggi o di chiarimenti, i vertici del Sant’Ufficio non fanno sconti. Pur se prudenti e cautamente disponibili a collaborare con colleghi che sfidavano, per il solo fatto di esistere, l’universalità dei poteri dell’Inquisizione romana, sono intransigenti nel pretendere dalle autorità siciliane il rispetto delle regole in vigore nel tribunale che guidano. È quanto si osserva, ad esempio, riguardo alle disavventure che coinvolgono una stessa persona nell’Inquisizione di Sicilia e in qualcuna delle sedi giudiziarie dipendenti dalla Congregazione del Sant’Ufficio e potrebbero perciò sfociare in conflitti di competenza. Penso in particolare al caso seicentesco di un inquisito spagnolo e dei suoi presunti complici, complicato, secondo i vertici dell’Inquisizione romana, dalla circostanza che l’uomo si presenta come posseduto dagli spiriti.[4]
Questa linea, ispirata insieme a fermezza e a rispetto nei confronti degli inquisitori di Sicilia, non aveva impedito però ai cardinali del Sant’Ufficio, pochi anni prima, nel gennaio del 1625, di aderire prontamente a una richiesta del generale della Compagnia di Gesù. Il prelato aveva sollecitato il rilascio a un confratello del collegio messinese di una autorizzazione ad assolvere nel foro della coscienza gli eretici stranieri che arrivavano nella città siciliana da paesi “infetti” e non intendevano in alcun modo comparire dinanzi ai giudici dell’Inquisizione di Sicilia. Era una prassi usuale, dopo gli esiti della drammatica crisi religiosa del Cinquecento, nelle tante aree europee – si pensi soltanto a Francia e Germania – ‘complicate’ dalla convivenza obbligata di cattolici e protestanti. In esse l’esperienza e i poteri speciali dei confessori gesuiti garantirono alla Chiesa romana sostanziosi recuperi del terreno perduto. Nel caso del religioso messinese una sola condizione fu posta dai cardinali della Congregazione del Sant’Ufficio nel conferire l’autorizzazione richiesta: che gli eretici in questione non avessero complici in Italia. Tuttavia, non risulta che di quella concessione, ovviamente non indifferente per le attività del tribunale siciliano, fossero messi al corrente gli inquisitori palermitani.[5]
L’uso accorto delle alternative di coscienza nel governo dell’eresia non fu, per i cardinali del Sant’Ufficio, la sola ingerenza – peraltro indiretta – nelle attività e nelle competenze dell’Inquisizione in Sicilia. Ci furono anche interventi diretti e di forte rilievo. Risalgono ad esempio allo stesso giro di anni svariate loro decisioni, fortemente segnate da interventi personali di Clemente VIII e di Paolo V, riguardanti le reiterate richieste degli inquisitori di Sicilia di inserire la sodomia tra i delitti di propria competenza. Esse furono sistematicamente respinte, con la sola eccezione degli ufficiali e dei familiari del loro tribunale. Tuttavia, nei confronti di questi ultimi, la Congregazione del Sant’Ufficio autorizzò la celebrazione di processi solo a condizione che non si concludessero con la condanna a morte.[6]
Non meno indicative delle tante contraddizioni della presenza inquisitoriale nella Sicilia moderna –esse non rispa rmiarono peraltro l’Italia coeva, malgrado le maggiori difficoltà incontrate dai tribunali di fede italiani già nel corso del Seicento e le differenti strategie adottate dalla Congregazione del Sant’Ufficio per farvi fronte– sono altre fonti romane, solo a prima vista estranee alle dinamiche della difesa giudiziaria dell’ortodossia. Mi riferisco alla ciclopica documentazione conservata in un archivio vaticano straordinario, come quello che raccoglie, quasi integralmente, le attività di un dicastero romano nuovo di zecca, istituito nel tardo Cinquecento e noto presto con il nome di Congregazione dei Vescovi e Regolari.[7] Pur dotati di un raggio d’azione universale, come i colleghi del Sant’Ufficio, i cardinali che lo guidavano dedicarono gran parte del proprio tempo a un’Italia ‘larga’, comprensiva di Sardegna e Sicilia. La ricchezza del campo d’azione che essi si ritagliarono consentì loro di interferire pesantemente e di continuo in terreni contigui alle attività delle inquisizioni della penisola, ma anche di quelle deputate a tutelare l’ortodossia nelle due grandi isole circostanti, dipendenti dai re di Spagna. Basti solo pensare al ruolo cruciale di controllo e di orientamento che la Congregazione dei Vescovi e Regolari esercitò sull’amministrazione del sacramento della penitenza e sui confessori, che per tutta l’età moderna furono croce e delizia per i cardinali del Sant’Ufficio e per la rete inquisitoriale dell’intera penisola.
Tra i tanti casi attinenti all’andamento e alle complicazioni della vita religiosa nella Sicilia postridentina, non escluse quelle di competenza inquisitoriale, ne ho scelti due, che possono allargare adeguatamente il quadro tematico così ben delineato nel libro recensito. Una lettera indirizzata nel dicembre del 1581 dalla Congregazione dei Vescovi e Regolari al vescovo di Mazara mi sembra molto indicativa. Gravi abusi –osservavano i cardinali– si perpetuavano da sempre nella chiesa dei carmelitani di Trapani, già segnalati opportunamente, ma forse senza successo, anche alle autorità centrali dell’Ordine. Nella notte che precedeva l’Annunciazione quel luogo sacro rimaneva aperto tutta la notte e ospitava senza difficoltà gruppi di uomini e donne, che non si limitavano ad approfittare della promiscuità per dare scandalo. In quelle ore agitate e convulse, infatti, era anche consueto pubblicare finti miracoli. Le linee di intervento suggerite al prelato per eliminare l’abuso erano legate a una duplice preoccupazione. Bisognava trovare un giusto equilibrio tra la necessità di tagliare corto con esperienze così trasgressive e l’esigenza, non meno importante, di evitare le reazioni rabbiose degli interessati. Perciò, visto il forte radicamento di quegli eccessi, sarebbe stato opportuno ‘toglierli piano piano’. Perciò, per i cardinali della Congregazione, l’iniziativa più urgente era quella di chiudere la chiesa per tutta la notte. Sarebbe stato opportuno aprirla solo la mattina seguente, molto presto, e solo per chi volesse pregare. Si trattava ormai –commentavano i cardinali– di tradizioni stroncate quasi ovunque, dopo la pubblicazione dei decreti tridentini. Nessuna tolleranza, invece, era suggerita sulla pubblicazione di presunti miracoli. Bisognava vietare quella consuetudine e procedere rigorosamente, secondo le prescrizioni dettate dal concilio.[8]
Pochi anni dopo, nel 1593, fu Antonio Lombardo, arcivescovo di Messina, che tra l’altro, come titolare della diocesi di Mazara tra il 1573 e il 1578, aveva probabilmente tollerato gli eccessi consumati nella chiesa dei carmelitani, a scrivere una lunga, irritata lettera ai cardinali della Congregazione dei Vescovi e Regolari. Oggetto della sua lamentela era una pesante cerimonia pubblica organizzata pochi giorni prima dall’archimandrita, nella chiesa dell’Annunziata. Un bestemmiatore era stato condannato a stare in ginocchio con il capo scoperto e i cedoloni di scomunica sul petto e sulle spalle. Su di essi si poteva leggere ‘Giustitia fatta di comandamento di Monsignor Arcimandrita per haver bestemmiato’. Si era trattato – continuava Lombardo – di un abuso grave commesso ai suoi danni, perché quella chiesa era soggetta alla sua giurisdizione e sarebbe toccato a lui intervenire. Aveva perciò immediatamente raccolto testimonianze al riguardo, ma era ben consapevole della sua impotenza: l’archimandrita era immediatamente soggetto alla Santa Sede, e dai tempi di Sisto IV. Il caso, che meriterebbe ulteriori ricerche centrali e locali, finì forse in una bolla di sapone, ma invita a riflettere su tanti aspetti della storia civile e religiosa della Sicilia: dal ruolo dei vescovi ai limiti dell’azione di un’Inquisizione pure attenta, attraverso la rete dei familiari e il meccanismo delle visite, al controllo dell’isola. Anche su queste e altre vicende simili un libro solido e vivace come quello di Giovanna Fiume è un invito prepotente ad approfondire le ricerche.
Referencias bibliográficas
Foti, Rita (in corso di stampa). I graffiti delle carceri del Santo Uffizio di Palermo. Un inventario. Palermo: University Press.
La Mantia, Vito (1977[1886]). Origine e vicende dell’Inquisizione in Sicilia. Palermo: Sellerio.
Mancino, Michele e Romeo, Giovanni (2013). Clero criminale. L’onore della Chiesa e i delitti degli ecclesiastici nell’Italia della Controriforma. Roma-Bari: Laterza.
Menniti Ippolito, Antonio (2011). 1664. Un anno della Chiesa universale. Saggio sull’attività italiana del papato in età moderna. Roma: Viella.
Messana, Maria Sofia (2007). Inquisitori, negromanti e streghe nella Sicilia moderna, 1500-1782. Palermo: Sellerio.
Niccoli, Ottavia (2011). Vedere con gli occhi del cuore. Alle origini del potere delle immagini. Roma-Bari: Laterza.
Romeo, Giovanni (1993). Aspettando il boia. Condannati a morte, confortatori e inquisitori nella Napoli della Controriforma. Firenze: Sansoni.
Sciascia, Leonardo (1977). Nota introduttiva a Giuseppe Pitré, Graffiti e disegni dei prigionieri dell’Inquisizione. Palermo: Sellerio (lo scritto risale al 1964).
Sciuti Russi, Vittorio (2009). Inquisizione spagnola e riformismo borbonico fra Sette e Ottocento. Firenze: Olschki.
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[1] Un buon esempio di queste questioni è in Niccoli (2011).
[2] Vedi almeno Messana (2007) e Sciuti Russi (2009).
[3] Vedi al riguardo Romeo (1993: cap. IV) e Mancino-Romeo (2013: 159-162).
[4] Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede (ACDF). Decreta Sancti Officii (DSO), 1632, c. 20r, seduta del 28 gennaio.
[5] ACDF, DSO, 1625, c. 4r, seduta del 2 gennaio.
[6] Biblioteca comunale di Bologna, ms. B 1887, passim.
[7] Vedi al riguardo almeno Menniti Ippolito (2011).
[8] AAV, Congregazione dei Vescovi e Regolari, d’ora in avanti CVR, Registra Episcoporum, 8, 1582-1583, f. 58r, lettera della Congregazione dei Vescovi e Regolari al vescovo di Mazara del 18 dicembre 1581.
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