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Magallánica : revista de historia moderna - Año de inicio: 2014 - Periodicidad: 2 por año
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MAGALLÁNICA, Revista de Historia Moderna: 11 / 21 (Instrumentos)

Julio - Diciembre de 2024, ISSN 2422-779X

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MEMORIE DELLA CATASTROFE. LA SOPRAVVIVENZA DELLA MISSIONE FRANCESCANA A SMIRNE (XVII-XVIII SECOLO) *

 

 

 

Umberto Signori

Università degli Studi di Pavia, Italia

 

 

 

 

Recibido:        02/07/2024

Aceptado:       21/12/2024

 

 

 

 

Riassunto

 

Smirne è stata una città di terremoti, pestilenze, incendi e massacri. Nonostante ciò, è il ricordo di una città portuale ricca, commerciale e cosmopolita che ha prevalentemente guidato i diversi studiosi nella loro analisi di questo luogo e delle catastrofi che colpirono la città. I motivi per cui i disastri meno recenti vengono ricordati o, al contrario, dimenticati rimangono ancora una questione aperta. Questo articolo esplora la memoria degli sconvolgimenti che hanno minacciato la sopravvivenza della missione francescana a Smirne nei secoli XVII e XVIII. Attraverso un’analisi delle testimonianze prodotte durante periodi di crisi, si mira a comprendere come le tensioni sociali abbiano influenzato la selezione dei ricordi di eventi calamitosi e garantito la perpetuazione della comunità francescana.

 

Parole chiave: missione francescana; Smirne; oblio; catastrofe; memoria; sopravvivenza.

 

 

MEMORIAS DE LA CATÁSTROFE. LA SUPERVIVENCIA DE LA MISIÓN FRANCISCANA EN ESMIRNA (SIGLOS XVII-XVIII)

 

Resumen

 

Esmirna fue una ciudad azotada por terremotos, plagas, incendios y masacres. Sin embargo, es el recuerdo de una ciudad portuaria rica, comercial y cosmopolita el que ha prevalecido en los estudios sobre este lugar y las catástrofes que asolaron la ciudad. Las razones por las que se recuerdan o, por el contrario, se olvidan desastres menos recientes siguen siendo una cuestión abierta. Este artículo explora la memoria de los acontecimientos que amenazaron la supervivencia de la misión franciscana de Esmirna en los siglos XVII y XVIII. A través del análisis de los testimonios producidos durante los periodos de crisis, se pretende comprender cómo las tensiones sociales influyeron en la selección de los recuerdos de los acontecimientos calamitosos y garantizaron la perpetuación de la comunidad franciscana.

 

Palabras clave: misión franciscana; Esmirna; olvido; catástrofes; memoria; supervivencia.

 

 

MEMORIES OF THE CATASTROPHE. THE SURVIVAL OF THE FRANCISCAN MISSION IN SMYRNA (XVII-XVIII CENTURY)

 

Abstract

 

Smyrna has been a city marked by earthquakes, plagues, fires and massacres. Nevertheless, it is the memory of a wealthy, commercial and cosmopolitan port city that has predominantly guided the various scholars in their analysis of this location and the catastrophes that struck the city. The reasons why less recent disasters are remembered or, on the contrary, forgotten still remain an open question. This article explores the memory of the upheavals that threatened the survival of the Franciscan mission in Smyrna in the 17th and 18th centuries. Through an analysis of the testimonies produced during periods of crisis, it seeks to understand how social tensions influenced the selection of memories of calamitous events and ensured the perpetuation of the Franciscan community.

 

Keywords: Franciscan mission; Izmir; oblivion; catastrophe; memory; survival.

 

 

 

Umberto Signori. Ha sido investigador posdoctoral en la Universidad de Nápoles “Federico II”, en el ámbito del proyecto ERC DisComPoSE: Disasters, Communication and Politics in Southwestern Europe. Previamente, ha sido investigador posdoctoral en el Haifa Centre for Mediterranean History y en la Universidad Nacional y Capodistríaca de Atenas. Actualmante está comenzando una nueva pespectiva de investigación en la Universidad de Pavía con el objetivo de analizar la inclusión política, los bienes colectivos y las desigualdades económicas en las áreas de montaña durante la Edad Moderna. Sus primeros trabajos han abordado cuestiones de movilidad, diplomacia, protección y procedimientos de identificación en el Mediterráneo de la Edad Moderna desde una perspectiva centrada en los derechos reivindicados por los extranjeros. Sus publicaciones sucesivas se han focalizado en la gestión de los bienes consulares, de la emergencia y de los desastres. Sus intereses comprenden diversos ámbitos del Mediterráneo, como la república de Venecia, el reino de Nápoles y el imperio otomano.

Correo electrónico: signori.umberto@gmail.com

ID ORCID: 0000-0003-4563-2258


 

 

MEMORIE DELLA CATASTROFE. LA SOPRAVVIVENZA DELLA MISSIONE FRANCESCANA A SMIRNE (XVII-XVIII SECOLO)

 

 

 

 

 

“Nel 1797, Smirne era divenuta, dal fuoco e dal coltello dei barbari, come preda di un vulcano. Seimila persone furono uccise in questa circostanza, e la maggior parte della città fu bruciata” (TERZORIO, 1917: 138). Il metropolita greco-ortodosso di Smirne, Antimo, annotò questo ricordo in un antico manoscritto dedicato a San Giovanni Evangelista, donato poi alla chiesa ortodossa di Agiou Ioannou, ricostruita nel 1804 dopo gli eventi del 1797. Nel 1922, la chiesa di Agiou Ioannou andò nuovamente a fuoco e con essa il ricordo traumatico del metropolita.

Il “grande incendio di Smirne” del 1922 è ricordato come il capitolo finale della guerra greco-turca (1919-1922), con gravi conseguenze umanitarie e la distruzione di una parte significativa della città. Questo evento continua a suscitare controversie e tensioni tra Grecia e Turchia, che interpretano in modo diverso gli avvenimenti. Mentre in Grecia si piange la “catastrofe” dell’Asia Minore, in Turchia si commemora la “liberazione” di Smirne. (MANSEL, 2011; NEYZI, 2008)

Come rammenta l’annotazione ottocentesca dell’arcivescovo ortodosso, prima del trauma del 1922 l’incendio e il massacro del 1797 erano rimasti a lungo nella coscienza di Smirne come evento catastrofico. E la conoscenza di altri fatti tragici precedenti, legati a pestilenze, terremoti, conflagrazioni e guerre, era stata trasmessa alle generazioni successive proprio per i loro effetti calamitosi. I racconti pubblicati dai viaggiatori europei nel XVII e XVIII secolo segnalavano la frequenza di tali catastrofi a Smirne e ne attribuivano la responsabilità di aver fatto dimenticare alla città il suo passato greco-romano e i suoi monumenti, ricordati solo grazie ai testi degli autori antichi. (MEYER, 2008)

La storiografia ha esaminato l’impatto di questi fenomeni disastrosi, manifestatisi tra il Seicento e l’Ottocento, evidenziando la resilienza delle strutture commerciali e urbane di Smirne di fronte a tali shock esogeni. (PANZAC, 1973; ÜLKER, 1974; FRANGAKIS-SYRETT, 1992; GOFFMAN, 1999; ESIRKIŞ, 2019) Altri studi hanno sottolineato, per quanto riguarda i massacri del 1797 e del 1821, la continuità dell’elemento cosmopolita nonostante le forti tensioni nazionaliste che cominciavano a emergere nel Mediterraneo orientale. (MANSEL, 2011; FRANGAKIS-SYRETT, 2023) Poca attenzione è invece stata dedicata alla memoria che le comunità si tramandavano di stravolgimenti del passato non legati all’incendio del 1922.

La mancanza di considerazione potrebbe dipendere dal fatto che le fonti documentarie riguardanti le catastrofi precedenti al 1797 sono state prodotte e conservate quasi solo dagli europei occidentali. A parte uno studio focalizzato sul massacro del 1797, che dimostra attraverso resoconti in greco e turco-ottomano che questo evento, considerato come il primo caso di conflitto etnico greco-turco, fu in realtà una manifestazione delle tensioni sociali tra i giannizzeri e i privilegiati franchi (europei), le altre analisi si basano sulla documentazione missionaria o consolare europea. (TANSUĞ, 2019)

La vasta documentazione redatta dai padri francescani e cappuccini a partire dalla metà del XVII secolo ha conservato l’esperienza dei terremoti, degli incendi e delle pestilenze che hanno colpito Smirne nel corso del tempo. Questi testi, per lo più manoscritti, sono stati esaminati da studiosi religiosi, che si sono concentrati a narrare l’esperienza degli eventi sconvolgenti e il loro impatto sull’attività pastorale. (TERZORIO, 1917; MATTEUCCI, 1975)

Una ricerca inedita sulle carte del consolato francese a Smirne alla fine del Seicento ha dedicato alcune pagine al ricordo del “grande terremoto” del 1688, che colpì la città e la comunità francese residente. Per oltre un secolo, ogni anno, si tenne una commemorazione religiosa cattolica e una protestante per questo evento. Nei ricordi dei mercanti sopravvissuti di Smirne, il sisma venne spesso evocato per evidenziare le perdite economiche subite o per valorizzare i lasciti testamentari a favore di istituzioni religiose. Anche un autore siriano, dopo oltre cinquant’anni, menzionò gli eventi del 1688. (SADER, 1991: 108-112) Tuttavia, questi studi non hanno indagato a fondo le tensioni sociali che hanno influenzato la composizione di tali documenti legati al trauma. (FAROQHI, 1999: 63)

Il presente studio esamina i motivi alla base della documentazione che ha preservato la memoria del complesso francescano di Smirne, delle sue confische e delle sue distruzioni tra il XVII e il XVIII secolo. Per sopravvivere alle catastrofi che minacciavano la missione, i membri dell’ordine riformato dei frati minori osservanti, detti anche “zoccolanti”, dovettero negoziare con i rivali cristiani per celebrare le funzioni religiose e garantirsi il sostentamento attraverso l’amministrazione dei sacramenti. Dipendevano anche dal supporto diplomatico dei rappresentanti franchi, esercitato in particolare attraverso i consoli, per proteggere i loro beni da eventuali sequestri. In cambio di questa protezione, i consoli e gli ambasciatori reclamavano lo jus patronato sulla chiesa e sugli stabili dei frati di san Francesco; un diritto che, nel contesto ottomano, si traduceva nella disposizione dei loro edifici e delle loro rendite mettendo a rischio la ricostruzione o il recupero della chiesa francescana in situazioni belliche o catastrofiche.[1] Quando necessario, i frati cercavano altri protettori, generando dispute tra le varie parti coinvolte. I ricordi di pestilenze, terremoti, incendi e guerre che avevano colpito i minori osservanti emergevano quando ciascuna parte ricorreva al passato per dimostrare che le proprie scelte erano le migliori per affrontare situazioni urgenti.

L’uso strumentale della memoria, sebbene simile nel modo in cui venne esercitato a ogni disastro che minacciava la sussistenza della missione, rifletteva uno stato di necessità diverso di volta in volta. Lo scopo è comprendere quali tensioni sociali hanno influenzato la selezione dei ricordi dei traumi del passato in tre momenti di vulnerabilità che hanno minato la continuità della vita dei frati a Smirne: dopo la guerra tra Venezia e l’Impero ottomano per il dominio di Creta (nota come guerra di Candia, 1645-1668), che portò alla confisca degli edifici dei frati; dopo gli anni di conflitto tra la Repubblica veneziana e l’Impero ottomano per il possesso del Peloponneso (guerra di Morea, 1684-1699), durante i quali la chiesa francescana dedicata prima all’Immacolata Concezione e poi a sant’Antonio fu lasciata in rovina, poi distrutta da un terremoto e infine bruciata; e dopo l’incendio e l’eccidio del 1797, che distrusse il complesso religioso. Tre occasioni che si è scelto di analizzare dalla più recente alla più remota per evitare un’eccessiva ripetizione di eventi e che nelle fonti sono considerate in egual misura come sconvolgenti per la vita dei frati, senza fare distinzione tra una loro origine naturale o provocata dall’uomo. Questi eventi traumatici mettono in luce le fratture di ogni singolo contesto che non solo hanno distorto la memoria nei decenni successivi di ciò che era stato fatto per garantire la continuazione dell’attività missionaria dei francescani a Smirne, ma hanno anche fatto dimenticare molte testimonianze sul passato dell’ordine dei minori riformati in città. Il caso di studio recupera quindi la memoria di quanto è stato volutamente fatto dimenticare per delegittimare azioni e rivendicazioni fondate su sistemi di significato preesistenti, legittimando invece altri sistemi di valore che avrebbero garantito la sopravvivenza della missione di fronte a situazioni drammatiche.

Le testimonianze delle passate situazioni di necessità della chiesa dei frati minori osservanti sono conservate in vari archivi. A differenza dei cappuccini e della loro chiesa di Smirne, dedicata a san Policarpo, protetta dalla Francia fin dalla sua costruzione nel Seicento e ancora identificata con quella nazionalità, i frati francescani furono protetti dalla Repubblica di Venezia, dai rappresentanti consolari e diplomatici delle Province Unite e infine dall’Impero asburgico d’Austria nel periodo oggetto dello studio. Gli archivi che conservano le memorie prodotte nei tre momenti di fragilità della missione sono principalmente l’Archivio di Stato di Venezia, in particolare quello del Bailo di Costantinopoli (il rappresentante veneziano presso la Porta ottomana) e quello della rappresentanza olandese in Turchia presso l’Archivio Nazionale dell’Aia.[2] Le testimonianze dei tempi difficili dell’apostolato dei riformati si trovano anche a Roma, nell’archivio della Congregazione di Propaganda Fide.[3] La dispersione documentaria ha contribuito in qualche modo alla frammentazione della memoria della chiesa e degli sconvolgimenti che ha dovuto affrontare, tanto che oggi si è perso il ricordo dell’ubicazione originaria dell’edificio di culto o del nome Immacolata Concezione, ora mutato in Santa Maria.

 

Memoria di una vedova: la storia dei beni francescani a Smirne

 

Nel 1798, la vedova Marie, erede universale del defunto conte de Hochepied e console generale a Smirne della Repubblica batava, presentò una memoria extragiudiziale per far valere il suo diritto di proprietà sul terreno dove i francescani avevano avuto la loro chiesa e convento. Questi edifici erano stati distrutti dall’incendio l’anno precedente ed erano in ricostruzione sotto la protezione imperiale degli Asburgo. Nella memoria, la vedova sostenne che i frati erano sotto la protezione batava dal XVII secolo e negò la protezione cesarea per mancanza di testimonianze ufficiali. La contessa rifiutò la giurisdizione del tribunale consolare asburgico e richiese la mediazione di una terza parte.[4]

Tra le prove presentate dalla vedova, vi era una storia della proprietà che metteva in discussione la legittimità della disposizione del terreno da parte dei religiosi, che avevano venduto parte del terreno senza il consenso dell’erede per avviare i lavori di ricostruzione. Il defunto marito aveva già contribuito alla ricostruzione della chiesa e del convento dopo l’incendio del 1763. In precedenza, la chiesa e il convento erano stati riscattati dai mercanti olandesi durante la guerra di Candia (1645-1669). La ricusazione della protezione veneziana da parte del commissario della Custodia dopo il conflitto avrebbe dimostrato che i frati di Smirne erano stati sotto la protezione della Repubblica batava dal 1674, raccomandata anche dall’imperatore asburgico Leopoldo I nel 1675.[5]

L’incendio del 1688, causato da un terremoto, aveva distrutto parte di Smirne, compreso il complesso francescano. Diversi frati erano stati sepolti sotto le rovine. I mercanti olandesi avevano aiutato i frati sopravvissuti finanziando la costruzione di una cappella, dedicata a sant’Antonio, in un luogo che era servito loro da dimora fino al 1693. Tuttavia, l’aria malsana e le acque infette della zona in cui si trovava questa residenza avevano favorito il diffondersi dell’epidemia, così un altro “negociant batave”, Willem (o Guillaume, secondo il testo francese) Marquis, mosso da compassione, aveva concesso ai frati riformati “la possession & non la proprieté” di un caravanserraglio che aveva acquistato vicino alla marina della città, nella contrada detta dei franchi. La concessione riguardava solo l’alloggio, mentre le funzioni religiose avevano continuato a svolgersi nella cappella di Sant’Antonio fino al 1699, quando la chiesetta era stata vittima di un nuovo incendio.[6]

I minori osservanti, privi di un luogo proprio dove officiare la messa, erano stati soccorsi da un membro della famiglia de Hochepied, antenato del defunto conte, che aveva ottenuto dal Sultano l’ordine di costruire una nuova chiesa con l’intercessione della moglie, influente presso la corte ottomana. Il terreno su cui sorgevano gli edifici francescani era stato trasferito a de Hochepied, primo console delle Province Unite della dinastia, nel 1710. Aveva concesso l’investitura ai frati ma si era riservato la proprietà per sé e i suoi eredi.[7]

Il documento extragiudiziale rilevava diversi modi di possedere il terreno e titoli di proprietà sugli edifici usati dai religiosi. La memoria dimostrava anche che senza il sostegno della famiglia de Hochepied, i francescani non avrebbero potuto sopravvivere agli sconvolgimenti che avevano colpito Smirne.[8] Inoltre, per mantenere la continuità con la condizione precedente, il documento descriveva i mercanti della comunità olandese del Seicento come “batavi”, sottolineando così la lunga protezione fornita loro dalla Repubblica di Batavia per oltre un secolo. Di conseguenza, i frati non avrebbero avuto fondamento per rivendicare diritti sul terreno o sugli edifici precedenti alla recente catastrofe, a maggior ragione considerando la loro scelta di cambiare protettore.

L’ambasciatore batavo presso la Porta ottomana sostenne la questione a livello diplomatico. Comunicò all’internunzio cesareo residente nella stessa corte che la protezione dei missionari, insieme alla proprietà della terra, era stata tramandata fino al marzo 1797 con il consenso del conte de Hochepied, che agiva come loro protettore e console generale d’Olanda. Tale precisazione era dovuta perché Daniel Jean de Hochepied aveva ricoperto il ruolo non solo di console olandese, ma a partire dal 1759 anche di vice-console per il Sacro Romano Impero. (VANNESTE, 2021: 54-55)

Il diplomatico asburgico Peter Herbert von Rathkeal rispose che il terreno apparteneva alla missione dei padri riformati di Smirne, poiché la questione della protezione era di natura politica e non privata. Sostenne che fosse noto a tutti che egli stesso aveva protetto la missione per diciannove anni e che i suoi predecessori l’avevano fatto fin dal trattato di Belgrado (1739).[9]

I rappresentanti della Repubblica batava e del Sacro Romano Impero, pur contrapposti sul piano diplomatico, beneficiavano da tempo di privilegi concessi nell’Impero ottomano alle rispettive autorità sovrane. Fin dal Cinquecento, i governi ottomani avevano riconosciuto ai sovrani cristiani condizioni privilegiate, formalizzate in testi chiamati ahdname in turco-ottomano, suddivisi in capitoli, da cui il termine europeo “Capitolazioni”. Questi accordi regolavano la presenza legale dei sudditi dei sovrani cristiani nei domini del Sultano e rappresentavano un elemento fondante della politica estera ottomana, in grado di favorire alleanze diplomatiche strategiche. (GROOT, 2003; ELDEM, 2006) Nel Cinque e Seicento, l’approccio ottomano nel concedere privilegi giuridici ed economici ai sudditi dei sovrani cristiani rifletteva la marginale incidenza del commercio occidentale sull’economia dell’Impero. Tra i benefici garantiti, talvolta anche attraverso comandi esecutivi emanati dal Sultano, vi era il diritto di possedere e riparare luoghi di culto, subordinato però alle autorizzazioni e restrizioni delle autorità ottomane. (DE OBALDIA, 2018; DIPRATU, 2021)

La Repubblica delle Province Unite, ancor prima di diventare Repubblica batava, ottenne le sue prime Capitolazioni nel 1612. Per il governo ottomano, tali accordi costituivano un’alleanza strategica contro la corona spagnola, mentre per gli Stati Generali delle Province Unite rappresentarono un’occasione per svincolarsi dall’influenza francese nel Mediterraneo orientale e ampliare i propri traffici commerciali. Le comunità olandesi stabilite in Levante conobbero il loro apogeo tra la fine degli anni 1640 e l’inizio degli anni 1690, diventando in questo periodo tra le più influenti economicamente e diplomaticamente presso la Porta ottomana. Tuttavia, in ambito religioso, la protezione dei missionari cattolici non fu mai esplicitamente sostenuta dagli Stati Generali, ma derivò piuttosto dalle ambizioni di singole famiglie di ambasciatori e consoli olandesi, intenzionate a consolidare il proprio prestigio e la propria influenza a livello locale. (GROOT, 1978; ISRAEL, 1986; DROFFELAAR, 1994)

Il Sacro Romano Impero, dal canto suo, assicurò ufficialmente la sua protezione ai cattolici franchi, sia ecclesiastici che missionari, soggetti alla sua giurisdizione e garantì loro il diritto di ripristinare le chiese sin dal 1615 grazie ai trattati di pace negoziati con il governo ottomano. Il trattato di Belgrado del 1739 segnò l’apice di questi privilegi, ampliando la possibilità di disporre dei luoghi di culto per i cattolici sotto la protezione dell’imperatore cesareo. Nonostante i lunghi periodi di pace tra Sei e Settecento, i frequenti conflitti militari tra i due imperi confinanti limitarono la capacità dei rappresentanti degli Asburgo di consolidare un’influenza duratura sia sul piano economico che diplomatico presso la Porta. (DO PAÇO, 2019; DIPRATU, 2021: 88-108)

Il riferimento alla sfera politica e al trattato di Belgrado di Herbert evocava gli eventi catastrofici del 1763. L’incendio di quell’anno, riconosciuto anche dai direttori del commercio levantino di Amsterdam come una “rampen” (una catastrofe, un disastro), aveva colpito diverse chiese nel quartiere franco di Smirne. Anche se la corrispondenza del console de Hochepied con gli Stati Generali menzionava solo la ricostruzione della casa consolare e della cappella calvinista, il terreno su cui sorgevano anche il convento e la chiesa dei francescani “recolletti”[10] era di sua proprietà.[11] Tuttavia, il console non aveva richiesto l’appoggio dell’ambasciatore delle Province Unite, necessario per ottenere dalla Porta un documento che autorizzasse la ricostruzione dell’edificio religioso.[12] Se le autorità ottomane non si erano opposte alla riedificazione della chiesa francescana, era perché questa risultava protetta dalla sovranità imperiale asburgica e non da quella olandese. Il trattato di Belgrado tra l’Impero ottomano e l’Impero asburgico aveva rinnovato la disposizione secondo cui tutte le chiese cattoliche potevano essere liberamente restaurate sotto la giurisdizione cesarea senza bisogno di un ordine del Sultano. (DIPRATU, 2021: 101-102, 186-187) La questione della ricostruzione della chiesa era quindi di natura politica, poiché senza il sostegno diplomatico, anche indiretto, la ricostruzione della struttura ecclesiastica non sarebbe stata possibile. Ciò a prescindere dalla quantità di denaro che si sarebbe potuto mettere a disposizione. La ricostruzione degli edifici francescani sotto la protezione di de Hochepied era perciò rientrata nell’ambito della sua giurisdizione di vice-console asburgico.

Le scritture rivelano quanto fosse cruciale per i missionari poter contare sulla protezione politica per continuare a praticare il culto a Smirne. Costruire o riparare chiese cristiane richiedeva un approccio diplomatico: solo i luoghi già consacrati e caduti in rovina potevano essere riadattati, a condizione che non fossero stati rivendicati da sudditi musulmani, mentre i nuovi edifici religiosi dovevano rispettare le proporzioni delle antiche chiese. Il governo ottomano doveva vigilare su queste disposizioni e perciò era necessario un ordine del Sultano che autorizzasse la costruzione di una nuova chiesa dopo la distruzione di quella precedente. (DIPRATU, 2021: 184-193) I francescani, come gli altri ordini religiosi, non avevano un rappresentante diplomatico proprio alla Porta per ottenere tale permesso. Dovevano quindi cercare il sostegno di una delle comunità cristiane che avevano un ambasciatore presso la corte ottomana. Ciò dimostra che la comunità che offriva protezione all’ordine riformato, assumendo anche il patronato su di esso, non doveva necessariamente essere cattolica, benché lo fosse nella maggior parte dei casi.

La lettera del 1797 del nuovo sindaco apostolico dei padri riformati di Smirne, che agiva come loro prestanome nei contratti di trasferimento di beni stabili, sottolineava la loro incapacità di detenere titoli di proprietà. Questo non era solo dovuto all’illegalità dei loro possedimenti in territorio ottomano, ma anche al divieto stabilito da una bolla papale confermata da Benedetto XIV, che riteneva più sicura la protezione delle potenze cattoliche per la missione evangelica. (MATTEUCCI, 1975: 167-171) La lettera, indirizzata al console asburgico Hermann Ambroise de Cramer, chiedeva il suo supporto contro le accuse della vedova, sostenendo che la protezione olandese era stata solo una “necessaria simulazione” a causa dell’incapacità dei francescani di acquisire e trasmettere la proprietà. Ne risultava un resoconto di un possesso immemorabile dei padri zoccolanti, in cui gli interventi per far fronte alle situazioni di emergenza non trovavano spazio e venivano relegati nell’oblio.[13]

Il “precis historique des faits” dell’ordine francescano riformato a Smirne, redatto in favore di Marie de Hochepied per fini giudiziari, tratteggiava il lungo periodo di protezione offerta ai religiosi dalle Province Unite olandesi. Questa cronologia, estratta dagli archivi francescani, metteva in luce i momenti più drammatici della loro missione. Alcune delle informazioni contenute possono essere smentite, ma il punto che il documento dal valore processuale esprime è che i religiosi di san Francesco dovevano il superamento di eventi altrimenti fatali per la loro esistenza alla protezione diplomatica di una potenza europea, e in questo caso particolare alla protezione garantita dalle Province Unite.[14]

L’incendio alla fine del Settecento minacciava la proprietà della famiglia de Hochepied, il cui terreno aveva ospitato il convento e la chiesa francescana. Marie, l’ereditiera vedova, insieme al figlio destinato a succedere al consolato batavo, si trovarono privati dalle fiamme dei loro beni in città, con l’accesso al credito temporaneamente bloccato. La perdita del terreno avrebbe aggravato ulteriormente la loro già precaria situazione.[15] Herbert, d’altra parte, aveva il patronato anche della chiesa francescana di Santa Maria Draperis a Pera di Costantinopoli, un punto cruciale nell’influenza diplomatica austriaca. Il suo coinvolgimento con i minori osservanti di Smirne rifletteva il suo stretto legame con la comunità latina dell’Impero ottomano durante le turbolenze causate alle guerre rivoluzionarie francesi. (DO PAÇO, 2019) In una società in cui il possesso prolungato di un bene conferiva diritti, il ricordo del sostegno politico per la ricostruzione degli edifici religiosi durante i momenti traumatici diventava un elemento chiave per decidere chi potesse disporre della proprietà. A sua volta, la gestione di tali proprietà era ritenuta molto utile per superare un momento di crisi.

 

Il ricordo della protezione: la lotta per il patronato dopo il “grande terremoto”

 

Nel 1702, il console delle Province Unite, Daniel de Hochepied, ordinò ai frati zoccolanti di riconoscere il diritto e la protezione del suo consolato sul luogo di culto occupato dai religiosi. Il console giustificò questa richiesta ricordando l’aiuto fornito dalla comunità olandese ai francescani “in tempo di necesità”, come durante la guerra per il possesso di Creta (1645-1669) in cui era avvenuta la confisca del convento e la sua alienazione a favore dei greco-ortodossi. Questo supporto includeva anche l’assistenza finanziaria e diplomatica fornita sia dai mercanti cattolici olandesi che dal cognato di Hochepied, ambasciatore presso la Porta ottomana, durante l’ultima guerra di Morea (1684-1699), quando la cappella era stata bruciata in un incendio.[16]

La dichiarazione era motivata dall’iniziativa dei frati nel cominciare i lavori sul terreno senza consultare il console, fatto che oscurava gli sforzi della comunità olandese durante gli eventi catastrofici che avevano colpito la chiesa e la casa francescana alla fine del Seicento. Il commissario della missione sembrava voler cancellare gli interventi olandesi, supportato dalle autorità veneziane che aspiravano a riacquistare il controllo sui luoghi di culto gestiti dai padri di san Francesco perso negli anni di guerra. Venezia voleva riportare la situazione alla condizione prebellica, dimenticando gli eventi traumatici, e l’ambasciatore veneziano Lorenzo Soranzo presentò perciò le pretese olandesi come un’usurpazione, sostenendo che i frati vivevano sotto “il manto del Luteranesimo”.[17]

Sebbene il capitolo sulla protezione dei cattolici franchi residenti nell’Impero ottomano fosse stato formalmente riconosciuto alla Serenissima solo con il trattato di pace del 1701, i diplomatici veneziani avevano esercitato questa tutela su cattolici e chiese almeno dal 1604. (MATTEUCCI, 1975: 30-45; DIPRATU, 2021: 68-87) Dopo la perdita di Cipro, divenuta ottomana nel 1573, tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento Venezia era rimasta comunque la potenza cristiana più influente alla corte ottomana, grazie al suo peso diplomatico ed economico nei domini del Sultano. (COSTANTINI, 2009: 151-178)

Nella prima metà del Seicento, tuttavia, l’ascesa di comunità mercantili rivali, come quelle francesi, olandesi e inglesi, si era combinata con la spinta espansionistica nell’Egeo della Porta. Tra gli anni Trenta del Seicento e l’inizio del Settecento, i traffici tra Venezia e il Levante ottomano passarono progressivamente sotto il controllo di mercanti stranieri, mentre i pochi veneziani ancora attivi in questi mercati preferivano spesso operare sotto la protezione di altri sovrani cristiani. Le tre guerre che infine portarono al dominio ottomano su Creta (1669) e sul Peloponneso (1715) limitarono l’influenza veneziana nella regione.

Malgrado queste difficoltà, la Serenissima mantenne la sua vocazione marittima e le ambizioni di protagonismo nel Mediterraneo orientale, elementi fondamentali della sua legittimità politica. Lo sviluppo di una rete consolare e di misure per la protezione di missionari ed ecclesiastici in Levante durante il Seicento testimonia la volontà del patriziato veneziano di conservare una presenza significativa nell’area. (ÜLKER, 1974: 180-263; SLOT, 1982; ANDERSON, 1989: 49-65; COZZI, 1991: 129-147; COSTANTINI, 1998; POUMARÈDE, 2020)

Soranzo cercò di far valere le pretese della Repubblica veneziana sulla protezione della chiesa documentando il suo sostegno storico alla ricostruzione e alla protezione della chiesa. Citò “la memoria nei publici registri” dei mandati imperiali del 1605 e del 1612 che dimostravano l’attenzione di Venezia verso il luogo di culto, minacciato da appropriazioni indebite e da una condizione di rovina.[18] L’ambasciatore sostenne che l’“immemorabile possesso” della chiesa da parte di Venezia fosse inalienabile, sconvolgibile solo per effetto di un nuovo decreto del Sultano. Il sequestro del complesso francescano durante il conflitto per il possesso di Creta (1645-1669) sarebbe stato la prova che la memoria pubblica aveva riconosciuto tale possesso veneziano.[19]

Soranzo citò anche documenti che attestavano il recupero del convento nel 1660 da parte del console olandese Michel du Mortier e di alcuni mercanti cattolici della sua comunità, ribadendo che questa restituzione era avvenuta per carità ed elemosina, senza pretese possessorie che avrebbero potuto pregiudicare i diritti di Venezia.[20]

Protestò contro l’usurpazione del diritto di patronato da parte degli olandesi durante il conflitto tra Venezia e l’Impero ottomano per il Peloponneso (1684-1699). Menzionò che il decreto del Sultano ottenuto dall’ambasciatore delle Province Unite (1699) riconosceva solo la possibilità temporanea per i frati riformati di praticare il loro rito nel nuovo convento e contestò il trasferimento dei frati in questo convento su un terreno acquistato dal mercante olandese Guillaume Marquis diverso dal luogo autorizzato per il culto cattolico. Il sostegno della comunità di lingua fiamminga dopo il terremoto del 1688, che aveva rovinato l’antico complesso, e in seguito all’incendio della cappella di Sant’Antonio non si era quindi concretizzato nel garantire ai padri zoccolanti un vero e proprio luogo di culto, un simbolo che avrebbe sancito il diritto di patronato degli olandesi. La documentazione dimostrava che i frati, nonostante non potessero possedere proprietà a proprio nome, avevano gestito le loro elemosine e rendite per rimborsare Marquis per il terreno e la costruzione del nuovo convento.[21]

Le testimonianze dei frati riformati, raccolte tra il 1699 e il 1700 in seguito all’ordine di Propaganda Fide a favore della protezione di Venezia, ricordavano che durante la guerra di Candia (1645-1669) e durante il conflitto di Morea (1684-1699), il console francese aveva negato loro la protezione, lasciandoli “poveri del tutto in paese di nemici”. Confermavano che durante il periodo in cui erano stati sotto la protezione dei cattolici di lingua fiamminga, il procuratore olandese Marquis aveva venduto il sito veneziano alla comunità greco-ortodossa senza che ve ne fosse bisogno. Le elemosine e i lasciti devoluti dai veneziani a favore dei riformati venivano quindi amministrati dagli olandesi, non sempre corrispondendo alle esigenze della missione. La documentazione conservata nell’archivio del bailo veneziano dimostra ancora una volta la speranza del patriziato veneziano di riportare le cose alla situazione precedente alla guerra, preferendo dimenticare gli avvenimenti sconvolgenti del recente passato.[22]

La protezione delle Province Unite fu contestata anche dall’ambasciatore francese, che accusò la condotta dei minori osservanti, asserviti ai calvinisti, e la minaccia di confisca che correvano nel celebrare la messa in un luogo non riconosciuto come chiesa antica. Tuttavia, non fornì prove di interventi a sostegno dei frati durante i momenti che ne turbarono l’esistenza. La promessa di protezione garantita dal residente francese presso la Curia di Roma si basava sull’eventualità di nuovi conflitti tra Venezia e l’Impero ottomano, ma non era supportata da memorabili azioni di tutela durante le guerre precedenti.[23]

A partire dalla Capitolazione del 1604, i monarchi francesi avevano tentato di rivendicare il primato della protezione di tutti i cattolici nei domini ottomani, aspirando a superare anche Venezia in questo ambito. Questo presunto primato, però, si rivelò più una costruzione propagandistica volta a presentare il Re cristianissimo come il protettore di tutta la Terra Santa. Né la Congregazione di Propaganda Fide, magistratura papale istituita nel 1622 per il governo delle missioni religiose, né la Porta ottomana intesero mai garantire un controllo esclusivo francese sui cattolici del Levante.

All’inizio del Seicento, infatti, le chiese nei domini ottomani gestite dai frati francescani erano rimaste sotto la protezione veneziana. I sovrani francesi non riuscirono mai a imporre un controllo completo sui minori osservanti, spesso riluttanti ad accettare un patronato troppo invasivo e in competizione con altri ordini religiosi già favoriti dal Re cristianissimo. Questa situazione perdurò anche dopo il 1673, quando il monarca ottenne maggiori privilegi capitolatori relativi ai cattolici.

Nel corso del secolo, però, le comunità mercantili francesi erano emerse tra le più influenti della regione, favorite dalla loro espansione commerciale e dall’assenza di conflitti militari diretti con l’Impero ottomano. I loro consoli, impegnati a consolidare questa affermazione economica, cercarono di estendere il controllo anche sui cattolici non francesi per accrescere il prestigio della monarchia. (ÜLKER, 1974: 180-263; MATTEUCCI, 1975; ANDERSON, 1989: 49-65; DROFFELAAR, 1994; HEYBERGER, 1994; DIPRATU, 2021: 27-67; POUMARÈDE, 2006, 2024)

Altre attestazioni dei padri riformati di Smirne all’inizio del Settecento riprendevano la storia del loro ordine nell’ultimo secolo. Ricordavano il legame con i veneziani fin dall’inizio del Seicento. Durante la guerra di Candia (1645-1669), rammentavano, il loro luogo era stato confiscato e venduto ai vicini greco-ortodossi, ma erano stati commiserati dai cattolici “fiamenghi et inglesi”. Dopo la pace, erano tornati sotto la protezione della Serenissima. Tuttavia, il conflitto di Morea (1684-1699), il terremoto e l’incendio del 1688 li avevano lasciati senza la loro chiesa, senza protezione e senza un posto dove vivere. Si erano trasferiti nel loro cimitero fuori città e, grazie alle elemosine dei mercati cattolici olandesi, avevano costruito una piccola cappella dedicata a sant’Antonio dove ottennero la licenza di celebrare messa. Dopo che anche questa chiesa era stata bruciata nel 1697, chiesero all’ambasciatore francese il permesso di costruire una nuova cappella, ma la richiesta era stata respinta perché il sito dove si trovava l’antica chiesa dell’Immacolata Concezione non era più a loro disposizione. L’ambasciatore delle Province Unite aveva invece assicurato loro il permesso per celebrare le funzioni in un oratorio del nuovo convento, che Marquis aveva procurato perché vi abitassero.[24]

Questi racconti intendevano evidenziare come, nelle situazioni di estrema necessità che avevano colpito la missione di san Francesco a partire dalla metà del Seicento, la comunità olandese avesse sempre garantito la sopravvivenza dei padri zoccolanti a Smirne. Al contrario, la comunità francese appare come un elemento di nessuna utilità, se non addirittura un ostacolo, alla loro esistenza. I padri cappuccini avevano cercato per decenni di attirare i fedeli di varie lingue per far riconoscere la loro parrocchia come universale. Anche il console francese aveva minacciato di esclusione coloro che non si sottoponevano ai sacramenti di questa parrocchia. Durante la guerra per il Peloponneso (1684-1699), questo includeva non solo i membri della comunità francese, ma anche i cattolici grecofoni e italofoni che non potevano più essere sotto la protezione del console veneziano. Solo i fedeli di lingua fiamminga si sottraevano a questo ricatto, non temendo di perdere l’appoggio del loro console.[25] La chiesa e il convento “rovinati” non avevano più la possibilità di essere riparati, poiché le elemosine erano state sottratte dai cappuccini. Le azioni dei religiosi rivali erano rappresentate dai frati riformati come non dettate dalla necessità, ma motivate da un’invidia che aveva provocato l’incendio della cappella di Sant’Antonio.[26]

Il rischio di confisca della chiesa francescana è un tema ricorrente in questa documentazione, soprattutto dopo eventi come terremoti e incendi. Le autorità ottomane sequestravano le rovine delle chiese distrutte, rimettendole poi sul mercato del vicinato.[27] Cercavano di garantire che nessun edificio di culto venisse ricostruito senza il permesso imperiale, che veniva concesso solo dopo la verifica della proprietà del terreno e del suo passato come luogo di culto cristiano. Se questo processo non fosse stato rispettato, l’edificio sarebbe stato demolito e il terreno confiscato nuovamente dalle autorità ottomane. (DE OBALDIA, 2018: 65-74; DIPRATU, 2021: 188-189)

Tra il 1703 e il 1705, il nuovo bailo veneziano si rivolse a Propaganda Fide per risolvere una situazione che il Senato di Venezia considerava ancora scandalosa.[28] Il bailo documentò che il console e l’ambasciatore delle Province Unite non avevano ricevuto sostegno dagli Stati Generali nella loro azione protettiva. Il memoriale presentato avanzava però le stesse rivendicazioni basate sulla difesa della chiesa di Smirne nel 1605 e nel 1612. (MATTEUCCI, 1975: 94-96) Nel 1706, anche l’ambasciatore francese cercò di delegittimare la protezione degli olandesi, privando la chiesa francescana delle elemosine dei fedeli tutelati dalla Francia. (BINZ, 2013: 102-104)

Tra il 1706 e il 1709, i religiosi del convento furono interrogati dal guardiano della Custodia. Le loro testimonianze furono poi riprese dalla cronaca della missione e, molto più tardi, dalla vedova de Hochepied per sostenere la sua tesi. I frati riportarono che nella cancelleria del consolato olandese risultava registrato “ad perpetuam rei memoriam” che i contributi principali per la costruzione della nuova residenza provenissero principalmente dai fedeli cattolici di lingua fiamminga. Ricordarono che l’intervento dell’ambasciatore delle Province Unite, sollecitato dalla moglie del console olandese a Smirne, avesse consentito loro di disporre di edifici dove celebrare le funzioni sacre anche a Chios e a Costantinopoli dopo i tragici eventi precedenti. Riconobbero l’aiuto offerto loro in particolare dal console e barone de Hochepied, definito “vero amico dei religiosi”, durante “questi tempi calamitosi di guerra”, senza di cui non avrebbero potuto rimanere in città.[29]

Dopo gli eventi di fine Seicento, la Repubblica di Venezia non era l’unica a cercare di riconquistare influenza in questa parte del Mediterraneo ottomano. Le comunità olandesi e francesi avevano subito danni alle loro strutture commerciali e religiose a causa del terremoto e dell’incendio del 1688. I costi per la ricostruzione di nuove case, cappelle e magazzini pesarono su di loro per anni. (ICONOMOS e SLAARS, 1868: 128-131; DAM VAN ISSELT, 1907: 118-125; HEERINGA, 1917: 155-156; ÜLKER, 1974: 48-53; SADER, 1991: 76-80; BREWER, 2002: 93-94) Anche i predicatori di san Francesco subirono perdite significative riguardo ai loro edifici. Le risorse economiche provenienti da elemosine e lasciti dei cattolici non francesi furono minacciate prima dal nuovo conflitto veneto-ottomano, poi dal trasferimento dei frati dal centro commerciale della città e infine dalla mancanza di una chiesa dedicata per celebrare la messa. Queste risorse rischiavano di essere deviate verso altre istituzioni e missionari. Le esigenze di liquidità e di credito del consolato delle Province Unite, dei cappuccini e dei gesuiti indussero allora i rispettivi ambasciatori a intervenire sul piano diplomatico per disporre, almeno in parte, di queste elemosine e di questi lasciti.

Il console veneziano e i padri zoccolanti cercarono invece di preservare unito il patrimonio donativo proveniente dai fedeli non francesi. Entrambe le parti selezionarono una memoria degli sconvolgimenti passati per presentare le proprie posizioni come la scelta migliore per la sopravvivenza della missione francescana. I francescani in particolare cercarono di far dimenticare la destinazione solo temporanea del convento all’esercizio del culto, celebrando la protezione degli olandesi. Ciò ebbe successo, poiché l’oratorio del convento continuò a essere la loro chiesa per molti anni.[30] Tuttavia, il ricordo dell’intervento olandese persistette a lungo, riportato anche dalla vedova de Hochepied alla fine del secolo. I successori francescani, che dovettero ricostruire il complesso dopo l’incendio del 1797, tentarono invece di cancellare la memoria di questi eventi.

 

Il trauma della confisca ottomana del complesso francescano

 

Nel maggio 1686, durante la guerra di Morea (1684-1699), il guardiano dei padri zoccolanti, Agostino di Trento, scrisse da Costantinopoli a Roma spiegando le pressioni esercitate dall’ambasciatore francese per convincerlo a sottomettersi alla protezione del Re cristianissimo. La questione era legata alla minaccia del diplomatico francese di privarli del supporto della comunità di lingua fiamminga tramite un’imposizione ottomana, che avrebbe colpito la comunità francescana più bisognosa, quella di Smirne, già priva di un edificio di culto autonomo. Durante la guerra di Candia (1645-1669), ricordava padre Agostino facendo ricorso alla “memoria locale” degli archivi del convento, il rifiuto del sostegno francese aveva portato alla confisca e alla vendita della casa francescana; perciò i religiosi si erano rivolti al console delle Province Unite per salvarsi. All’inizio dell’ultimo conflitto, privati della protezione del console veneziano in fuga, i religiosi che vivevano nella casa “chiamata anticamente Venedich dalli medesimi Turchi” avevano pregato il console francese di proteggerli, ma solo la comunità olandese aveva risposto alle loro esigenze, offrendo protezione e continuità delle elemosine. Il guardiano si preoccupava che le donazioni per la riparazione della chiesa venissero distribuite secondo le sue necessità di rovina, mentre sotto la giurisdizione francese i padri cappuccini avrebbero gestito le elemosine per altri scopi.[31]

La rovina della chiesa, menzionata nella lettera del guardiano Agostino e poi dimenticata dopo il terremoto e l’incendio del 1688, potrebbe essere ricondotta agli sconvolgimenti del conflitto per Creta (1645-1669). Fin dal 1683, il console veneziano Francesco Luppazzoli aveva segnalato il degrado della chiesa utilizzata dai padri riformati. L’edificio, antico, era pericolante e inadatto all’uso, tanto che i frati lo avevano abbandonato quando cominciò a piovere dentro. Nonostante Luppazzoli fosse titolare del patronato della chiesa, non aveva potuto ripararla perché era stata confiscata dalle autorità ottomane durante la guerra di Candia e venduta alla comunità di rito greco. La chiesa era rimasta di proprietà dei greco-ortodossi anche se la comunità fiamminga aveva ottenuto il permesso di amministrare i sacramenti in quel luogo, impedendo così a Luppazzoli di svolgere il suo ruolo di protettore. Il console concluse che l’oratorio, chiamato “magazzino” dai notabili di rito greco, era di proprietà veneziana fin dal secolo precedente e quanto accaduto durante la guerra venne accusato di essere un’usurpazione.[32]

L’uso della sala grande del convento per le funzioni religiose avrebbe esposto i francescani al rischio di confisca ottomana; quindi il proprietario olandese e calvinista Christoffel Capoen aveva proibito loro di amministrare i sacramenti e tenere oggetti di culto nella residenza. I padri riformati continuarono ad officiare messa quasi di nascosto in una piccola stanza tra il convento e la chiesa fino al terremoto che distrusse tutto. La comunità riformata fu privata del luogo di culto per almeno cinque anni, una situazione dimenticata dai frati che anni dopo celebrarono gli sforzi della comunità delle Province Unite in loro favore.[33]

Sin dal 1670, il console Luppazzoli aveva cercato di far valere il diritto della Repubblica sulla residenza francescana di Smirne, ricordando le azioni di Venezia a sostegno dei missionari all’inizio del secolo. Gli sconvolgimenti avvenuti durante l’ultima guerra per Creta avevano favorito le elemosine senza rivendicazioni di proprietà per affrontare la “calamità”, come la donazione del console delle Province Unite du Mortier e il lascito testamentario del console di Ragusa, che tuttavia si erano poi trasformati in usurpazioni.[34] Una selezione dei fatti da parte dei rappresentanti veneziani che, come visto nella sezione precedente, venne ripetuta anche dopo il conflitto del Peloponneso (1684-1699).

Nel 1681, il commissario generale della missione, interrogato sulla questione del diritto di patronato, affermò che l’edificio in cui vivevano i riformati era stato acquistato dai cattolici di lingua fiamminga durante la guerra. Tuttavia, non si sapeva se questa casa fosse stata costruita o acquistata a nome della Serenissima Repubblica, e negò che il console veneziano potesse avere prove in merito. Ricordò con certezza che la proprietà dove vivevano i padri zoccolanti a Smirne non era stata acquistata da nessun rappresentante di Venezia, poiché erano stati espulsi dalle terre ottomane a causa dello scontro bellico. Il cimitero, invece, era stato acquistato durante la peste (1668) grazie ai lasciti dei fedeli vittime dell’epidemia. Diverse testimonianze dei frati confermarono che Luppazzoli non aveva mai sostenuto finanziariamente la chiesa francescana nei momenti di bisogno, ma si era limitato a utilizzare le elemosine dei capitani delle navi veneziane per pagare l’affitto della chiesa e le spese di culto. La scrittura concluse affermando che, sebbene i frati zoccolanti dovessero essere stati sotto la protezione di Venezia prima dell’ultimo conflitto (1645-1669), il trauma della guerra aveva privato la Serenissima di ogni diritto di patronato. Tali sottoscrizioni non furono ricordate nella documentazione raccolta negli archivi del bailo veneziano dopo il 1699, ma vennero invece riportate nella memoria extragiudiziale della vedova de Hochepied dopo la catastrofe del 1797.[35]

La documentazione successiva ai due eventi bellici solleva una questione riguardante la memoria dei proprietari dell’edificio religioso usato dai frati zoccolanti. La chiesa dell’Immacolata Concezione, passata alla comunità greco-ortodossa nel 1659 durante la guerra di Creta (1645-1669), fu da loro sempre considerata un magazzino.[36] A partire dal 1660, fu affittata alla comunità di lingua fiamminga dai notabili ortodossi, probabilmente senza prevedere che sarebbe stata usata per il culto dei frati riformati. Rimase una fonte di reddito per i fedeli di rito greco fino al 1683, quando decisero di lasciarla cadere in rovina per cambiarne la destinazione d’uso. Testimonianze indicano che il complesso dei minori osservanti confinava con la residenza dell’arcivescovo ortodosso, dove esisteva la chiesa Agia Fotini almeno dal 1654.[37] Documenti degli anni Venti del Seicento conservati nell’archivio del Senato veneziano rivelano però che la chiesa utilizzata dai frati di san Francesco sotto il patronato di Venezia era stata precedentemente un luogo di culto greco-ortodosso, chiamato Agia Fotini. Solo nel 1605, con l’approvazione di Paolo V, fu dedicata alla Concezione della Vergine Maria. Restò comunque legata alla comunità ortodossa, che l’aveva concessa ai veneziani con un contratto di livello.[38]

Entrambe le chiese, quella dei frati latini e quella dei religiosi greci, furono distrutte nella catastrofe del 1688. (AMBRASEYS e FINKEL, 1995: 90-93) Sul sito fu ricostruita solo Agia Fotini, che, secondo recenti argomentazioni, sembra essere stata costruita sulle rovine della precedente chiesa dell’Immacolata Concezione. (İŞLER, 2022)[39] Il tentativo di far dimenticare l’esistenza della cappella francescana, relegandola a magazzino e permettendo il suo disfacimento per una futura riappropriazione, potrebbe essere stato intenzionale da parte dei cristiani ortodossi, che avrebbero potuto così ricostruire nel terreno la loro cattedrale più grande di prima.[40]

Nelle fonti consultate, l’evento più citato sembra essere la guerra di Candia, spettro che in realtà richiamava il pericolo maggiore per la missione: il sequestro della casa e della cappella francescana. Questa vulnerabilità era stata aggravata dal conflitto, che aveva portato all’assenza di protezione da parte di un rappresentante veneziano. Non mancava il supporto finanziario disponibile per l’ampliamento della residenza dei frati e per la riparazione della chiesa, grazie ai lasciti testamentari di membri influenti della comunità cattolica di Smirne. Parte di questi lasciti fu utilizzata per acquistare il terreno, presto adibito a cimitero degli appestati, dove i frati riformati si rifugiarono dopo gli eventi del 1688 per costruire la cappella dedicata a sant’Antonio. (MATTEUCCI, 1975: 52, 66, 170n141, 179, 478-479, 481-482)

Questo patrimonio, però, era costantemente minacciato di sequestro dalle accuse dei rivali ortodossi locali, che sollecitavano l’intervento delle autorità ottomane per stabilire la proprietà di quei luoghi. Ricordare che i proprietari erano cristiani fiamminghi intervenuti per aiutare in un momento di necessità, anche a scapito del precedente patronato veneziano, serviva a proteggere gli edifici usati dai padri zoccolanti dalla confisca ottomana. Al contrario, non celebrare la memoria di questo patronato avrebbe significato rischiare la perdita dell’uso di tali strutture a causa degli stessi olandesi, proprietari degli edifici di fronte alla corte ottomana.

Il patronato delle Province Unite consentì ai frati osservanti di garantirsi due edifici per la pratica dei sacramenti, cosa altrimenti impossibile nei domini ottomani: una chiesa che nel 1660 era stata trasformata in magazzino e parte di una residenza destinata poi a oratorio nel 1699. Questo è anche dovuto al fatto che i cristiani fiamminghi erano abituati a praticare il culto calvinista in oratori all’interno di edifici residenziali, una pratica che non sembra aver suscitato l’attenzione delle autorità ottomane a Smirne fino al XVIII secolo. (GROOT, 1978: 220; ALLAIN, 2024)

Il ricordo del patronato veneziano prima del 1645 era l’unico strumento a disposizione del console Luppazzoli, che non aveva un sostegno finanziario adeguato, per rafforzare la sua posizione in un contesto in cui, dopo la guerra, nessun mercante voleva più essere associato a Venezia. Nel caso di Luppazzoli, la sua stessa permanenza come console era a rischio. (SIGNORI, 2024)

 

Epilogo

 

La documentazione raccolta per il caso dalla contessa de Hochepied non rivela come proseguì il processo, né quale ricostruzione del passato della missione francescana fu più efficace.[41] La notizia dell’invasione dell’Egitto da parte di Napoleone circolava già in centri ben collegati come Smirne e Costantinopoli. Le relazioni tra la Repubblica batava e l’Impero ottomano si stavano deteriorando, poiché le Province Unite, alleate con le armate napoleoniche, erano viste con sospetto. Il 16 gennaio 1799, la Porta dichiarò guerra alla Repubblica di Batavia e ordinò la confisca delle licenze concesse ai consolati olandesi, compreso quello di Smirne. (NANNINGA, 1964: 619; KADI, 2012: 298-299) Jacobus, figlio dei conti de Hochepied e appena nominato console batavo a Smirne, non poté più sostenere la causa. Ancora una volta la guerra sancì un cambio di protezione per i frati zoccolanti.

La posizione del console cesareo a Smirne, de Cramer, si era rafforzata dopo la catastrofe del 1797 e a seguito dello stato di guerra in cui de Hochepied e i francesi erano coinvolti. Il convento e la chiesa di San Policarpo, utilizzati dai cappuccini, erano minacciati di confisca e questi missionari, vulnerabili in assenza del console di Francia che garantisse loro protezione, furono difesi da de Cramer e dal suo rappresentante diplomatico Herbert. (TERZORIO, 1917: 144-145) Quando fu stabilita la pace tra il governo francese e la Sublime Porta, i cappuccini tornarono sotto la protezione francese, ricordando che era stato grazie a questa nazione se nel Seicento era stata costruita la chiesa dedicata al santo martire. (TERZORIO, 1917: 157) Il ritorno dell’ambasciatore batavo a Costantinopoli nel 1802 significò anche il recupero delle prerogative del console de Hochepied a Smirne, ma non il riconoscimento della proprietà del terreno conteso con i francescani. Come documentato da un elenco di fedeli frequentatori del luogo ormai noto solo come Santa Maria, compilato da un frate riformato e inviato a Roma, nel 1804 l’imperatore d’Austria proteggeva la chiesa attraverso il suo console de Cramer, che era dedito al culto cattolico celebrato dai minori osservanti, a differenza della famiglia calvinista dei de Hochepied.[42]

Il cambio di protezione portò alla costruzione di una nuova memoria della missione di san Francesco e dei suoi edifici a Smirne. Ancora oggi si ricorda come la chiesa francescana di Santa Maria sia stata ricostruita insieme al convento dopo essere stata distrutta da un incendio nel 1889 grazie al sostegno dell’imperatore asburgico Francesco Giuseppe.[43]

Fino alla Prima guerra mondiale, l’ospedale di Sant’Antonio, gestito dai francescani di Santa Maria, era ricordato per la sua assistenza ai malati di peste, attività che attirava molte donazioni, e per essere riconosciuto come austriaco. Di fatto però era stato edificato durante il patronato olandese nel giardino con il cimitero degli appestati acquistato negli anni Settanta del Seicento. Sembra che l’ospedale sia stato distrutto da un incendio nel 1845 e ricostruito solo nel 1858-1859, quando fu inaugurato come ospedale austriaco. (CIVEZZA, 1894: 500; İNAL, 2006: 110)

Nel 1935, il superiore della missione francescana Augusto Artini si rivolse al nuovo ambasciatore italiano ad Ankara, Carlo Galli, chiedendo sostegno per risolvere le condizioni degli edifici gestiti dai religiosi di san Francesco a Smirne, con particolare riferimento all’istituto assistenziale di Sant’Antonio. Nel formulare la richiesta, Artini ricordava le origini dell’insediamento dei frati in città. La storia della missione francescana era caratterizzata da eventi tragici, dalla chiesa di Santa Maria eretta con l’aiuto dei genovesi nel XIV secolo e abbandonata dopo la terribile peste del 1453, fino alla sua ricostruzione dopo il terremoto del 1688. Da quest’ultimo evento era nato il nucleo edilizio che sarebbe poi diventato l’ospedale consacrato a sant’Antonio da Padova. L’istituzione caritatevole, che nel 1845 fu vittima di un incendio che la rase al suolo, fu ricostruita grazie a una gara di benefattori proveniente da una questua in Italia e in Austria. Gli eventi del 1922 portarono a un’ulteriore devastazione dell’ospedale e, sebbene la Croce Rossa italiana avesse continuato a fornire assistenza ai malati nonostante la mancanza di strutture stabili, l’indennità assicurativa per l’istituzione assistenziale incendiata fu incamerata dal governo italiano. Nel corso del tempo, il complesso francescano nella zona marina della città era invece stato colpito da diverse ondate di pestilenza, di nuovo distrutto dalle fiamme nel 1889 e infine coinvolto nella catastrofe del 1922 con l’incendio del convento e di altri edifici che costituivano la base finanziaria della sopravvivenza della missione. Solo la chiesa di Santa Maria si ergeva a dominare le rovine. “Oltre seicento anni, fatti di sofferente e di lotte scatenate ora dalla natura ed ora dagli uomini”, raccontò il padre superiore, durante i quali i francescani si erano avvalsi della protezione delle Repubbliche di Genova e Venezia, per poi essere protetti dal governo austro-ungarico.[44]

Gran parte della narrazione che componeva l’istanza ricalcava quanto contenuto nella Storia universale delle missioni francescane pubblicata da padre Marcellino da Civezza alla fine dell’Ottocento. (CIVEZZA, 1894: 499-500) Entrambi i resoconti escludevano qualsiasi riferimento al secolo in cui si era manifestata la protezione della famiglia consolare olandese dei de Hochepied. La lettera di Artini si differenziava dall’opera di Marcellino da Civezza per l’enfasi patriottica e la dimensione nazionale italiana a cui faceva continuo riferimento. Pur menzionando l’azione di sostegno degli austriaci e di Francesco Giuseppe d’Asburgo-Lorena, a cui i frati avevano dovuto ricorrere in seguito alle vicende politiche che avevano caratterizzato il periodo precedente la Grande guerra, il frequente richiamo alla vocazione e alle origini italiane aveva l’esplicito scopo di “sentirsi oggi protetti dall’ombra del Littorio”.

Il ricorso alla memoria di Artini era legato al concetto di nazione perseguito dalle istituzioni italiane e ometteva gli aspetti eterogenei e cosmopoliti che caratterizzavano di fatto la comunità italo-levantina di Smirne. Emergeva però anche il pericolo di alienazione dell’elemento cattolico, con le conseguenti strutture immobiliari ed educative, da una società sempre più improntata alla politica di unità nazionale di Mustafa Kemal. Il governo kemalista si era infatti rifiutato di riconoscere a livello giuridico il Vaticano e le proprietà gestite e trasmesse dalle istituzioni cattoliche in Turchia risultavano prive di qualsiasi tutela legale.[45] La narrazione del francescano era comunque consapevole delle aspettative di una nuova classe politica della monarchia d’Italia interessata a sviluppare un’influenza italiana nella nuova repubblica di Turchia, perseguibile anche attraverso la permanenza cattolica nell’area. Per garantire la ricostruzione delle opere apostoliche delle missioni nel Levante era quindi necessario sottolineare l’identità italiana dei francescani e il loro sentimento patriottico di fronte alle effigi della disciplina fascista. (PONGILUPPI, 2016)

Sin dal Seicento, il diritto di patronato sui religiosi e sui loro possedimenti, rivendicato dai vari consoli e diplomatici, fu presentato da questi ultimi come un titolo immemorabile e quindi inalienabile. Senza il patronato, sostenevano i rappresentati franchi, i minori osservanti non avrebbero potuto sopravvivere in territorio ottomano. Tuttavia, di fronte a manifestazioni come confische, incendi e terremoti, il controllo duraturo di un consolato o di un’ambasciata sul patrimonio francescano ebbe un impatto negativo sulle sue condizioni materiali. Invece di prevenire il degrado delle strutture religiose reinvestendo nella loro manutenzione e miglioramento dopo i sequestri o le calamità che avevano coinvolto diversi elementi della comunità, i consoli patroni di lunga data preferivano utilizzare i finanziamenti generati dalle donazioni caritatevoli per soddisfare le esigenze dettate dal loro ruolo consolare piuttosto che dalla loro funzione di protettori dei religiosi.

Il trasferimento della protezione dell’attività missionaria da una potenza sovrana a un’altra consentì ai frati riformati una maggiore flessibilità nella gestione dei loro beni. Quando il diritto di un antico protettore costituì un ostacolo al diritto dei frati di gestire le elemosine a loro favore per garantire la sussistenza della loro missione, questi religiosi selezionarono il ricordo dei fatti accaduti in tempi drammatici per svincolarsi.

I minori osservanti ricercarono l’affrancamento dalla protezione consolare e diplomatica quando si trattava di situazioni urgenti e quando il trasferimento a un altro patrono non avrebbe messo a repentaglio l’integrità e la perpetuità dell’attività missionaria. Un’operazione per evitare il futuro decadimento della missione che non solo cancellava dalla memoria ciò che i precedenti patroni avevano realizzato durante i periodi catastrofici, ma che richiedeva anche la vendita degli edifici e dei fondi in rovina utilizzati dai francescani in passato, di cui si perse ogni ricordo, in cambio di beni in migliori condizioni e di maggior valore.

Era quindi possibile manipolare la memoria della risposta al disastro fornita dai protettori, se ciò significava una maggiore possibilità di sopravvivenza dell’azione missionaria. Questo uso della memoria era già consolidato nel Seicento e si ritrova con modalità analoghe almeno fino al Novecento, pur riflettendo di volta in volta tensioni sociali diverse.

Gli edifici francescani di Smirne, a differenza di quelli cappuccini, non rappresentavano santuari alla memoria di coloro che ne permisero la ricostruzione, ma erano luoghi in cui la capacità evangelizzatrice dei frati di san Francesco fu preservata nonostante gli sconvolgimenti. La sopravvivenza della missione in una città come questa era la principale preoccupazione dei padri zoccolanti, che a lungo andare si dimostrarono talvolta indifferenti alla memoria collettiva che si creava intorno ai luoghi da loro materialmente utilizzati.

 

 

 

Bibliografia

 

Fonti primarie

Archivio di Stato di Venezia, Venezia, Italia.

Archivio Storico de Propaganda Fide, Città del Vaticano.

Archivio Storico Diplomatico del ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Roma, Italia.

Nationaal Archief, La Haye, L’Aia, Paesi Bassi.

 

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* Este trabajo se ha realizado en el marco del proyecto ERC DisComPoSE. Disasters, Communication and Politics in Southwestern Europe (European Union’s Horizon 2020 research and innovation programme–grant agreement No 759829). Quisiera dar las gracias a las personas que formaron parte del equipo de investigación, especialmente a Yasmina R. Ben Yessef Garfia, Beatriz Álvarez García y Domenico Cecere. También quiero expresar mi agradecimiento a la Dra. Alessandra Bonsignorio por ayudarme a encontrar parte de la documentación de archivo y a la Dra. Anna Gialdini por su ayuda en la búsqueda de bibliografía.

[1] Sul tema, diversi saggi sono stati recentemente pubblicati nel volume miscellaneo curato daGrenet e Ulbert (2024). Per quanto riguarda gli studi consolari, mi limito qui a fare riferimento ai contributi più rappresentativi: Ulbert, Le Bouëdec (2006); Aglietti, Herrero Sanchez, Zamora Rodríguez (2013); Marzagalli (2015); Bartolomei, Calafat, Grenet, Ulbert (2018); Grenet (2021); il n. 22 degli «Études Balkaniques» (2017) a cura di G. Koutzakiotis e dedicato al tema: Réseaux consulaire, protection et interculturalité dans les Balkans (XVIIe-XXe siècles); il n. 93 dei «Cahiers de la Méditerranée» (2016), a cura di S. Marzagalli, J. Ulbert e dedicato al tema: Les études consulaires à l’épreuve de la Méditerranée; e il n. 98 dei «Cahiers de la Méditerranée» (2018), a cura di S. Marzagalli, J. Ulbert e dedicato al tema: De l’intérêt d’être consul en Méditerranée, XVIIe – XXe siècle.

[2] Non si fa qui riferimento ai fascicoli processuali del 1798 conservati nella busta 425 dell’archivio del consolato olandese a Smirne, né alla documentazione dell’archivio austriaco, a cui l’autore dedicherà future ricerche.

[3] Solo una parte di questa documentazione è stata esaminata direttamente, mentre è trattata in modo più organizzato nell’opera di Matteucci (1975).

[4] Pieces du procès. Nationaal Archief, La Haye (NA), Legatiearchief Turkije tot 1811 (LT), n. 1311, accessibile in https://www.nationaalarchief.nl/onderzoeken/archief/1.02.20/invnr/1311/file/NL-HaNA_1.02.20_1311_0001. In questo caso, s. f. [2-5], [28-29] 27 febbraio 1798.

[5] NA, LT, n. 1311. s. f. [17-19]; [56-58].

[6] NA, LT, n. 1311. s. f. [19-21].

[7] NA, LT, n. 1311. s. f. [21-22].

[8] NA, LT, n. 1311. s. f. [27]

[9] NA, LT, n. 1311. s. f. [10-11], 7 aprile 1798.

[10] Nelle fonti olandesi e francesi i padri zoccolanti venivano chiamati anche “recolletti”, ma mai “riformati” come invece accade nelle fonti in lingua italiana. Nella corrispondenza del barone di Hochepied del 1698-1699, invece, il console olandese aveva informato gli Stati Generali della mediazione dell’ambasciatore Colyer per consentire ai padri di celebrare la messa nel loro convento: NA, Staten-Generaal (SG), n. 6921, 5 agosto 1698, 15 gennaio 1699, doc. trascritti in Heeringa (1917: 273, 277).

[11] NA, SG, n. 6966, 24 agosto 1763, 12 ottobre 1763, 16 novembre 1763, doc. trascritti in Nanninga (1952: 483-486).

[12] Nella memoria della vedova, diverse date da lei fornite sono incoerenti, il che fa pensare che l’ereditiera non disponesse di una copia di questi documenti. È molto dubbio, in quanto non attestato da altre fonti ma piuttosto in contraddizione con esse, che dopo l’incendio del 1763 il conte de Hochepied abbia ottenuto dalla Porta un nuovo ordine per la ricostruzione della chiesa attraverso la mediazione dell’ambasciatore olandese, come invece sostenuto da Marie de Hochepied e discusso poi nello studio di Droffelaar (1994: 110-111).

[13] NA, LT, n. 1311. f. 4 [36-38], 2 ottobre 1798.

[14] NA, LT, n. 1311. s. f. [61-63].

[15] NA, Levantse Handel (LH), n. 150, 2 aprile 1797; n. 82, 20 giugno 1797; n. 68, 19 settembre 1797; docc. trascritti in Nanninga (1964: 580, 584, 587-588).

[16] Archivio di Stato, Venezia (ASVe), Senato, Dispacci ambasciatori, Costantinopoli (SC), fz. 167. foll. 105r-106r; Bailo a Costantinopoli (BaC), b. 369, fasc. 2, 19 luglio 1702.

[17] ASVe, SC, fz. 167, foll. 87r-88v, 16 settembre 1702, 91r-93v, 21 marzo 1699, 99r, 10 ottobre 1699. foll. 101r-v, 131r, 3 ottobre 1699.

[18] ASVe, SC, fz. 167. foll. 107r-108v: sono delle copie dei comandamenti imperiali, mentre le versioni autentiche di questi documenti erano state distrutte durante eventi traumatici occorsi nel ventennio precedente.

[19] ASVe, SC, fz. 167. foll. 132v-133r.

[20] ASVe, SC, fz. 167. foll. 111r-120r, 133r-134v.

[21] Copia con versione anche in ottomano anche in ASVe, BaC, b. 369, fasc. 5; SC, fz. 167. foll. 121r-128v, 135r-137v.

[22] Dichiarazione di fra Mansueto d’Osimo, commissario custode della Missione. ASVe, BaC, b. 369, fasc. 1. s. f.; fasc. 2, Roma 3 ottobre 1699; Roma 3 luglio 1700; fasc. 4, 16 aprile [1701]; dichiarazione registrata nella cancelleria consolare veneziana di Smirne. fasc. 5, doc. s. d.; 18 marzo 1700; Roma 18 luglio 1699; Smirne 26 marzo 1699.

[23] ASVe, BaC, b. 369, fasc. 5, 21 marzo 1699. Si veda anche Matteucci (1975: 83-86, e per il caso simile di Chios pp. 92-93).

[24] ASVe, BaC, b. 369, fasc. 1, 20 maggio 1701; informatione de la protettione e chiesa de reverendi padri reformati essistenti in Smirne, doc. non datato (n. d.). Congregatio geneneralis. Archivio Storico de Propaganda Fide (APF), Acta vol. 70. f. 147v, 24 maggio 1700, doc. citato in Binz (2013: 101n33).

[25] Il console di Ragusa in quegli anni non poteva garantire una protezione altrettanto continua per i cattolici italiani o di lingua greca.

[26] ASVe, BaC, b. 369, fasc. 1, copia di lettera n. d.; informatione de la protettione e chiesa de reverendi padri reformati essistenti in Smirne, doc. n. d.; Congregatio generalis. APF, Acta vol. 73. foll. 52r-v, 5 febbraio 1703, doc. citato in Binz (2013: 102n333).

[27] Si vedano i documenti in ASVe, b. BaC, b. 252, reg. 340. foll. 19a-b; e b. 369, fasc. 1, 20 maggio 1701.

[28] ASVe, Senato, Deliberazioni Costantinopoli, reg. 35. foll. 58r-v, 16 novembre 1702.

[29] NA, LT, n. 1311. s. f. [58-59]. Si veda anche Matteucci (1975: 74-78, 81-82).

[30] Si veda la relazione del 1710 del visitatore apostolico Castelli in Hofmann (1935: 449).

[31] ASVe, BaC, b. 369, fasc. 4, 16 maggio 1686.

[32] ASVe, BaC, b. 369, fasc. 5, 22 e 23 febbraio 1683.

[33] ASVe, BaC, b. 369, fasc. 5, 23 febbraio 1683 e allegato del 27 [febbraio 1683]; tra il fasc. 1, il fasc. 4 e il fasc. 5 ci sono tre disegni del convento non uguali e che possono fornire informazioni complementari.

[34] Inventario. ASVe, BaC, b. 369, fasc. 3, 2 maggio 1669; Copia relatione della nova fabrica mandata dal guardiano di Smirne al sudetto padre reverendissimo generale. Fasc. 4, Smirne 24 agosto 1672; Smirne 30 luglio e 5 agosto (s. anno); fasc. 5, 12 maggio 1682.

[35] NA, LT, n. 1311, s. f. [56-57], 24 giugno 1674; [57-58], 27 giugno 1681; ASVe, BaC, b. 369, fasc. 4, 27 giugno 1681.

[36] ASVe, BaC, b. 369, fasc. 1, 20 maggio 1701; fasc. 5, 22 e 23 febbraio 1683. Si veda anche Matteucci (1975: 474).

[37] ASVe, BaC, b. 369: disegni del complesso francescano sono presenti nei fasc. 1, 4, 5; si veda anche ASVe, SC, fz. 167, f. 128r, 18 dicembre 1686. Si veda altresì la pubblicazione della testimonianza dei due viaggiatori francesi Arvieux (1735: 56) e Galland (2000: 71).

[38] ASVe, SC, fz. 97, foll. 295r-300v, 15 aprile 1624; 304r-306r, 15 aprile 1624; 308r-309r, Primo settembre 1605; 318r-324v, 15 aprile 1624. Si veda anche Iconomos e Slaars (1868: 148).

[39] Informatione dela protettione e chiesa de r.p. reformati essistenti in Smirne. ASVe, BaC, b. 369, fasc. 1, n. d.; fasc. 4, 16 aprile [s. anno].

[40] Negli anni Cinquanta del secolo la comunità greco-ortodossa era probabilmente stata in difficoltà finanziaria. Diversi autori indicano la costruzione di Agia Fotini al 1658, ma non citano fonti a sostegno di questa data. Nelle “Mémoires” del viaggiatore Laurent d’Arvieux, la cattedrale era già presente nel 1654, anno in cui lo stesso autore francese e un altro testimone riportano un terremoto che distrusse diversi edifici a Smirne, tra cui forse anche il sito dell’arcivescovo ortodosso (AMBRASEYS e FINKEL, 1995: 70). Nel 1659, l’anno successivo alla possibile ricostruzione di Agia Fotini, Francesco Luppazzoli, all’epoca cancelliere consolare olandese, testimoniò che le tensioni contro i frati riformati aumentavano in città e che la confisca della loro residenza e del loro luogo di culto derivava da una denuncia di rivali ortodossi. (MATTEUCCI, 1975: 473-474) Si potrebbe ipotizzare che i costi sostenuti dalla comunità greco-ortodossa per riparare la chiesa e per la sua ricostruzione abbiano provocato la denuncia contro i frati zoccolanti. I cristiani ortodossi guadagnarono acquistando la casa confiscata di Venezia, rivendendola poi a un prezzo maggiorato ai cattolici fiamminghi e riappropriandosi della vecchia chiesa, affittata subito come magazzino, con l’obiettivo di raccogliere fondi per una cattedrale più grande. Grazie a questi fondi, dopo la catastrofe del 1688, i fedeli greco-ortodossi non solo ricostruirono la chiesa di Agia Fotini, ma riacquistarono anche il terreno del monastero francescano nel 1696.

[41] Non si fa qui riferimento ai fascicoli processuali del 1798 conservati nella busta 425 dell’archivio del consolato olandese a Smirne, citati invece in Droffelaar (1994: 112).

[42] APF, Fondo S.C. Smirne Vol. 2, doc. trascritto in http://www.levantineheritage.com/1804-St-Maria-Church-listing.html.

[43]https://www.terrasanta.net/2016/04/turchia-sei-frati-sulle-frontiere-del-dialogo/; https://ofm.org/firmata-la-convenzione-con-il-patriarca-ecumenico-bartolomeo-i.html. Si veda anche İnal (2006: 85).

[44] Ospedale S. Antonio di Smirne. Archivio Storico Diplomatico del ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Inter-nazionale (ASDMAECI), Ambasciata d’Italia in Turchia 1829 – 1938, anno 1937, pacco 9, fasc. A85. Ringrazio in particolare l’archivista di Stato Alessandra Bonsignorio per aver trovato la copia originale della lettera, trascritta senza indicazioni archivistiche sul sito: http://www.levantineheritage.com/pdf/Cronaca_di_un_francescano_su_l’ospedale_di_s.pdf.

[45] In una lettera privata inviata nel 1937 a un sacerdote salesiano, l’ambasciatore Galli ricordava che l’Italia aveva difeso e sostenuto l’ospedale di Sant’Antonio a Smirne per vent’anni. Senza la protezione italiana, insisteva l’ambasciatore, date le leggi turche in vigore, l’ospedale sarebbe stato chiuso. ASDMAECI, Archivio Carlo Galli, b. 2, fasc. 2.2, 17 febbraio 1937. Ringrazio ancora una volta la dottoressa Bonsignorio per avermi reso accessibile questo documento.

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