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Magallánica : revista de historia moderna - Año de inicio: 2014 - Periodicidad: 2 por año
https://fh.mdp.edu.ar/revistas/index.php/magallanica - ISSN 2422-779X (en línea)

Reseña de Fiume, G., (2021). Del Santo Uffizio in Sicilia e delle sue carceri, Roma: Viella. 356 pp., ISBN N° 978-88-3313-812-1.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mario Sanseverino*

Università degli Studi della Repubblica di San Marino, República de San Marino

mario.sanseverino@live.com

 

 

 

 

Recibido:        19/02/2022

Aceptado:       15/03/2022

 

 

Parole chiave: Sant’Uffizio Sicilia; Palazzo Chiaramonte-Steri; Graffiti; Carceri dell’Inquisizione; Inquisizione Spagnola; Palermo.

 

Keywords: Holy Office Sicily; Chiaramonte-Steri Palace; Graffiti; Inquisition Jails; Spanish Inquisition; Palermo.

 

Palabras clave: Santo Oficio de Sicilia; Palacio Chiaramonte-Steri; grafiti; cárceles de la Inquisición; Palermo.

 

 

 

 

 

Nel 1487 i sovrani di Spagna, Ferdinando e Isabella, nominarono il domenicano Antonio de la Peña regio inquisitore per la Sicilia, estendendo l’Inquisizione di rito spagnolo al viceregno; da allora sino al 1738 l’esercizio della giurisdizione inquisitoriale nell’isola divenne di competenza non del papa, ma del Consiglio della Suprema Inquisizione di Spagna. Nel saggio “Del Santo Uffizio in Sicilia e delle sue carceri” Giovanna Fiume ricostruisce la vicenda bisecolare dell’istituzione siciliana, analizzandola attraverso fonti, metodologie e prospettive eterogenee. L’autrice non si accontenta di un’unica lente per ricostruire la storia del tribunale siciliano, ma ne inquadra i molteplici aspetti da diverse angolazioni, realizzando un libro caleidoscopico. In esso sono racchiuse questioni di storia politica, istituzionale, giuridica, sociale, economica, intellettuale, materiale, artistica, accompagnate e legate da una lucida analisi iconologica, antropologica e linguistica sul complesso pittorico dei graffiti delle carceri dell’Inquisizione.  Questi segni -incisi o disegnati dai prigionieri sulle pareti delle celle- rappresentano la fonte regina del saggio; sono trattati dall’autrice come elementi grafici, cicli pittorici, cicli poetici e analizzati nella stretta interconnessione tra immagini e testi che collaborano nell’individuazione del messaggio trasmesso dall’autore allo spettatore.

Il saggio è articolato in nove capitoli, afferenti a tre nuclei tematici. La prima parte è la storia del tribunale dell’Inquisizione siciliana, con cui l’autrice introduce il lettore nelle questioni di carattere politico e istituzionale del Santo Uffizio siciliano attraverso una panoramica rapida, ma dettagliata.

Nel primo capitolo, l’affermazione in Sicilia della sede distrettuale della Suprema e Generale Inquisizione di Spagna è cadenzata dalle Concordias -atti con cui il sovrano definiva e risolveva le controversie di giurisdizione tra inquisitori e magistrati regi- (RODRÍGUEZ, 2010: 369-370). I conflitti del tribunale della fede con le altre autorità del regno, prima fra tutte quella del viceré, consentono all’autrice di seguire ed evidenziare i mutamenti del Santo Uffizio nei due secoli presi in esame. Inizialmente l’Inquisizione siciliana è impegnata ad affermare la sua potestà su qualsiasi altra istituzione secolare o religiosa concorrente, per cui il conflitto è inevitabile; in quest’operazione il tribunale amplia le proprie competenze a dismisura sino a trasformarsi, al termine del XVI secolo, in una magistratura dei costumi. È il riflesso del mutamento del concetto stesso di eresia, per cui qualsiasi comportamento giudicato innaturale o immorale può contenere in sé elementi ereticali e divenire perciò di competenza del foro inquisitoriale. Le vicende prendono una nuova piega quando, nel quarto decennio del XVII secolo, il conflitto tra Inquisizione e viceré subisce una battuta d’arresto, dovuta ai rivolgimenti politici europei e alle rivolte antispagnole nel viceregno di Sicilia, e il tribunale della fede diventa una appendice del potere regio; cioè si converte in un istituto di spionaggio e intelligence. Nel XVIII secolo, l’Inquisizione non segue il destino dell’isola che passa di corona in corona, in quanto sia con i Savoia, sia con gli Asburgo rimane legata alla Suprema di Madrid. Perciò i nuovi sovrani restringono le competenze del tribunale, giudicato troppo vicino alla potenza rivale, per cui si riduce anche il numero dei processi. Il culmine è toccato nel 1738 con il breve di Clemente XII Cum nobis potissima et summa cura, ottenuto dal nuovo sovrano di Sicilia, Carlo III di Borbone, l’Inquisizione siciliana si separa ufficialmente dalla Suprema e viene sottomessa al pontefice. Il depotenziamento che segue è notevole, e il Santo Uffizio passa da essere un temuto tribunale distrettuale a un “imbelle tribunale locale” (FIUME, 2021: 62), sempre meno attivo e in una profonda agonia che si protrae per quarant’anni, fino alla sua abolizione il 16 marzo 1782.

Nel secondo capitolo, l’analisi storico-istituzionale prosegue ma la prospettiva prevalente è storico-giuridica. L’autrice ricostruisce la procedura processuale ed evidenzia la dimensione teologale dell’azione dell’Inquisizione, radicata nel diritto divino, che fa del processo una vera e propria liturgia. Giovanna Fiume decodifica la simbologia grafica e testuale dell’opera De origine et progressu Officii Sanctae Inquisitionis, dell’inquisitore Luis de Páramo, da cui deduce “l’ideologia che ispira l’attività del Santo Uffizio” (FIUME, 2021: 71). Per comprendere la procedura giuridica sui generis del tribunale, nata dalla fusione di elementi sacramentali e giuridici (LAVENIA, 2010: 1257), l’autrice sottolinea come l’Inquisizione agisca in un regime contra legem, fondato sul principio del ‘segreto’, legato al sigillo sacramentale della confessione. In gioco vi è la salvezza dell’anima dell’imputato dalle sue colpe, e così il tribunale procede come un foro della coscienza il cui fine ultimo è la conversione del peccatore, la sua abiura. Tuttavia, contrariamente al sacramento della penitenza, in cui la remissione delle colpe è condensata nelle formule del perdono e dell’assoluzione, nel tribunale della fede il peccato diviene reato e alla colpa teologica corrisponde un castigo temporale necessario per la ricomposizione del delitto. La dimensione della colpa non è privata ma pubblica, come appare evidente negli autos de fe. Queste cerimonie hanno una chiara funzione pedagogica nei confronti della comunità, in esse il Santo Uffizio esibisce la sua onnipotenza e giustifica il suo operato.  Non è un caso che nelle sue fasi conclusive il processo inquisitoriale assuma le sembianze dell’esorcismo, entrambe le cerimonie aspirano a “scacciare il diavolo, responsabile […] di tutti i mali che affliggono l’uomo” (FIUME, 2021: 86), ed è questo il fulcro su cui si articola l’azione del tribunale.

Questo primo nucleo tematico si conclude con il terzo capitolo, in cui Giovanna Fiume ricostruisce l’entità dell’azione giudiziaria del tribunale siciliano e le tipologie di reati contro cui esercitò il suo rigore. L’autrice riassume l’indagine statistica in un paio di pagine, dopo di che la scala si riduce alla dimensione processuale e il capitolo prosegue in una preziosa sequela di casi, suddivisi per reato. Nell’impossibilità di fornire adeguato spazio a ogni tipologia, mi sembra utile evidenziare alcuni dei caratteri comuni che traspaiono da questa raccolta. Innanzitutto, si assiste all’ormai nota metodologia inquisitoriale per cui comportamenti dissimili sono associati tra loro, ridotti e deformati in categorie familiari alla manualistica del Santo Uffizio. Ad esempio, nei processi per stregoneria, i giudici cercano di ricondurre alcune pratiche magico-terapeutiche siciliane nell’agglomerato demonologico del sabba. Si tratta di casi simili ai processi ai benandanti friulani (GINZBURG, 1966) ma, contrariamente a questi, gli imputati siciliani non cedono alla deculturazione e non confessano ciò che i giudici vorrebbero estorcere dalle loro bocche. Un ulteriore elemento che accomuna i reati perseguiti dall’Inquisizione siciliana è legato alla posizione geografica dell’isola, al centro dei due bacini occidentale e orientale del mediterraneo: la Sicilia è una terra di frontiera, dove entrano in contatto molteplici comunità religiose e si trovano a transitare individui che sanno sapientemente giocare sulla propria identità, giramondo senza radici e trickster travelers (ZEMON DAVIS, 2006), portando con sé idee e credenze eterogenee. Così “nella maggior parte dei processi siciliani non ci troviamo di fronte a luterani, calvinisti, o musulmani in senso stretto, ma a commistioni di credenze che echeggiano più o meno da vicino alcuni precetti di quelle religioni” (FIUME, 2021: 184). Si tratta di commistioni e ibridazioni originali che gli inquisitori non colgono nella loro specificità e vengono ricondotte nella generica categoria delle proposizioni ereticali.

Conclusa la casistica dei reati, Giovanna Fiume dedica due capitoli alle carceri del Santo Uffizio siciliano: è questo il secondo nucleo tematico presente nel libro, il microcosmo carcerario.

L’autrice parte dalla ricerca di una sede prestigiosa per il tribunale della fede e per le sue carceri, mostrando come non si tratti solo di una questione tecnica, architettonica, ma innanzitutto politica, poiché “l’appropriazione di uno spazio concreto nelle città di Antico regime simbolizza, comunica, rivendica, legittima e fortifica la posizione politica raggiunta” (FIUME, 2021: 191). Così l’autrice evidenzia come la contesa tra inquisizione e viceré si giochi anche sulla messa a disposizione di edifici e fondi, puntualmente mancanti, per renderli agibili e ristrutturarli. È un’altra faccia del conflitto giurisdizionale descritto nel primo capitolo del saggio. Ancora una volta, la studiosa mostra la sua pregevole abilità nel cambio di prospettiva, nell’uso sapiente del gioco di scala nell’analisi storica (REVEL, 2006), per cogliere le tracce dei mutamenti nella vicenda dell’istituzione al centro del suo studio. L’indagine non manca di accennare brevemente alle caratteristiche tecniche, ai problemi strutturali e all’intensa attività del cantiere per l’edificazione delle carceri, ma si tratta di questioni secondarie, presenti nel testo più come un invito agli studiosi di storia materiale che come approfondimento. E, infatti, l’autrice segnala che la serie di contratti notarili da cui sono ricavate le informazioni sulle attività edili consentirebbe, a chi volesse farne uso, di ricostruire “la messa in opera di un cantiere edile di primo Seicento” (FIUME, 2021: 210).

Il capitolo seguente è dedicato all’esperienza della prigionia degli imputati e dei rei, dalla cattura al carcere. Nella prima parte l’autrice evidenzia la collaborazione tra le varie giurisdizioni dell’isola per catturare e tradurre il sospetto eretico a Palermo. La cooperazione prosegue con aspetti inquietanti nella messa a disposizione dei propri spazi da parte dei diversi istituti di detenzione, parte del vasto arcipelago carcerario dell’isola, per mancanza di spazio, per ragioni di sicurezza o per opportunità politica -come in occasione della repressione della rivolta del 1647 quando il viceré si servì degli inquisitori per eliminare i caporioni del tumulto facendoli rinchiudere nelle carceri segrete-. È solo il primo caso di un processo attraverso cui le prigioni del Santo Uffizio si trasformarono in prisones de Estado e il tribunale della fede in un servizio di intelligence e repressione nelle mani del viceré; si tratta di un punto nodale della vicenda dell’Inquisizione in Sicilia, su cui l’autrice torna a più riprese.

L’utilizzo abusivo delle carceri allarma la Suprema che perciò invia più volte i suoi visitatori a Palermo. Nel corso della loro visita questi producono relazioni dettagliate sulle condizioni di prigionia e sul governo delle carceri. Si tratta di fonti preziose e Giovanna Fiume le sfrutta appieno per ricostruire la dimensione quotidiana della detenzione. La descrizione è minuziosa e comprende il governo dell’istituto carcerario (caratterizzato da fenomeni di corruzione, soprusi e violenze contro i prigionieri),  il regime alimentare dei carcerati, le cure mediche prestate agli ammalati, i servizi di igiene personale a cui i detenuti possono accedere, gli oggetti di uso quotidiano con cui possono arredare le celle, i servizi aggiuntivi come quelli liturgici, le visite dei parenti, i permessi di uscita temporanea dalle carceri, le occasioni di ricreazione, i giochi per passare il tempo, lavoretti per racimolare denaro e la vita sessuale dei detenuti (fatta di rapporti omoerotici, molestie e forme di autoerotismo). Dalle testimonianze raccolte dai visitatori si apprende persino che nel complesso carcerario l’alcayde ha messo su una taverna, un lupanare e una beccheria “dove si macella un giovenco al giorno, esente dalle franchigie, per le esigenze degli inquisitori” (FIUME, 2021: 246). Il microcosmo carcerario appare così dinanzi agli occhi degli studiosi in tutta la sua complessità. Nonostante le ferree regole della detenzione, la prigione è un ambiente pienamente inserito nel contesto cittadino; attorno ad essa si articolano diverse attività economiche, fondate sul commercio di beni e servizi, e qualcuno è in grado di trarne profitto.

L’ultima parte del saggio è dedicata ai “graffiti, i disegni e le scritte dei prigionieri, una fonte indiretta e involontaria, nella accezione di Marc Bloch, e perciò tanto più reticente alle domande che le sono state poste” (FIUME, 2021: 13). L’analisi storica si amplia e perciò l’autrice deve rivolgersi all’antropologia sociale e culturale, alla linguistica e alla paleografia per comprendere il significato dei segni incisi e dipinti sulle pareti.

Ancora una volta l’indagine di Giovanna Fiume procede mediante un gioco di inquadrature del suo oggetto, in cui il primo passaggio è la decodifica dei segni uno per uno. Le immagini sono in prevalenza a carattere religioso, “un vero e proprio inventario delle devozioni di età moderna”, e in percentuale minore di argomento profano: motivi decorativi che “sembrano volere ingentilire lo spoglio spazio carcerario” (FIUME, 2021: 251-252). Le scritte sono in siciliano, latino, italiano, inglese, ebraico; in esse si celano preghiere, citazioni bibliche, salmi, antifone, poesie, notazioni sulla vita in carcere, vicende personali e collettive, e ancora l’intitolazione di una cella a un santo, nomi e cognomi di un prigioniero per intero o in sigla, date, calendari e segnali per gli altri detenuti. L’autrice trova nelle scritte le principali funzioni del linguaggio “definite dai manuali di linguistica, seppure mai presenti allo stato puro”, ma al di là delle singole categorie sono tutte, o quasi, “urla senza suono” (FIUME, 2021: 250, 254) con cui i carcerati chiedono di essere ascoltati.

Infatti, segnando le pareti del carcere, i prigionieri affermano la propria presenza, esprimono la loro sofferenza, ma soprattutto si appropriano dello spazio che abitano: “disegnare e scrivere indica un esercizio di giurisdizione sul luogo o su una sua parte, una sua privatizzazione, equivale a dichiararne il dominio, a trasformare la cella nel proprio spazio grafico” (FIUME, 2021: 270). In particolare, con la raffigurazione dei santi e l’intitolazione delle celle a loro nome, i carcerati sacralizzano lo spazio e, con questa operazione, addomesticano l’ambiente ostile in cui sono imprigionati. Il disegno del santo è come un’edicola votiva, ed è rappresentato a guisa di questa.  È un dispositivo sacrale a cui rivolgere gli atti di devozione e per i detenuti rappresenta il punto di riferimento a cui si ancorano come gruppo umano che vive all’interno della cella (TODESCO, 1997); cioè esso è il “centro di attenzione e di promozione di attività” (TORRE, 1995: 330) su cui costruire la loro comunità e in essa una gerarchia.

A questo punto l’autrice amplia l’inquadratura per comprendere le relazioni che intercorrono tra i segni su una stessa parete e la allarga ancora, questa volta utilizzando una lente grandangolare che le permetta di inquadrare in un’unica prospettiva le quattro mura della cella. Questo gioco le consente di cogliere i nessi tra i gruppi di immagini e scritte presenti sulle diverse pareti. Alcuni presentano omogeneità e affinità grafico-formali e testuali tali da essere riconducibili a un’unica mano; perciò, l’autrice può considerarli come se fossero un “programma di esposizione grafica” (PETRUCCI, 1985: 89).

 Nella terza cella del piano terra Giovanna Fiume individua un ‘ciclo pittorico’ e ne propone una lettura. L’autore “raffigura una via Crucis, costruisce delle vere e proprie stazioni di un pellegrinaggio penitenziale che ripercorre le tappe della passione e della salvezza” (FIUME, 2021: 292). Con questo ciclo egli intende raccontare il suo percorso di sofferenza, rinascita, riconciliazione che coincide con l’esperienza della prigionia da lui vissuta. Giovanna Fiume ritrova il medesimo tema del pentimento nei componimenti poetici incisi sulle pareti delle celle da quei poeti siciliani che, inquisiti dal Santo Uffizio, finirono nelle prigioni dello Steri. Si tratta di ‘cicli poetici’ che riflettono e si intrecciano ai versi dei poeti siciliani in libertà; ciò consente all’autrice di individuare in essi “l’onda lunga di una seconda ‘scuola poetica siciliana’” e nel carcere “un vero e proprio Canzoniere”. (FIUME, 2021: 302).

Il tema del pentimento e della prigionia come “pena inflitta da Dio per la purgazione delle colpe commesse” (FIUME, 2021: 305), ricorrente nei graffiti delle carceri del Santo Uffizio, è centrale nei due capitoli conclusivi del volume. In essi l’autrice ha “provato a leggere l’intero corpus di segni parietali come se si trattasse di un unico affresco, esplorandolo come una mappa e estrapolandone alcuni elementi della cultura dei carcerati, il loro senso della giustizia e della pena in primis” (FIUME, 2021: 18). Per i detenuti l’esperienza della prigionia è uno strumento di espiazione sufficiente per il perdono dei peccati commessi, che non coincidono necessariamente con i reati di cui sono accusati. Perciò accettano con pazienza e rassegnazione la prigionia, ma pretendono che ai patimenti della carcerazione corrisponda il perdono, frutto della misericordia divina. Ed è in questo passaggio che si può comprendere la “tensione tra la concezione della giustizia del tribunale e quella dei prigionieri”; per i detenuti se il tribunale “non riconosce l’espiazione del carcere come punizione sufficiente, si pone dalla parte dell’ingiustizia” (FIUME, 2021: 314-315) e perciò ogni condanna diventa ingiusta. La delegittimazione del Santo Uffizio è totale.

Nel capitolo finale Giovanna Fiume rintraccia le radici di questa concezione della giustizia in due filoni di pensiero strettamente intrecciati l’un l’altro, il relativismo religioso e il libertinismo, entrambi ampiamente diffusi sull’isola nel XVII secolo. Volendo in estrema sintesi riassumere il percorso: è l’indifferentismo religioso, cioè la convinzione che ciascuno si salvi nella propria legge, a condurre l’individuo verso una forma di religiosità individuale in cui è la propria coscienza a rappresentare l’unica discriminante tra il bene e il male, tra la salvezza e la dannazione. Non potendo stabilire quale sia la vera legge, all’individuo non resta che fare ben per potere ricevere il bene. Questo pensiero conduce l’individuo dall’indifferentismo all’incredulità o, per lo meno, alla liberazione della coscienza individuale. Così l’individuo si ribella alle ingerenze della Chiesa, o di qualsiasi altra autorità, nella sfera dei suoi comportamenti privati.

Concludendo il saggio, Giovanna Fiume lascia al lettore una chiosa che ha l’aria di essere un invito a rileggere in una nuova chiave le vicende inquisitoriali narrate nelle pagine precedenti. Nel XVII secolo era in atto una guerra sotterranea, intrapresa dal Santo Uffizio “contro libertà che non potevano essere godute e che pertanto dovevano essere considerate illegittime” (FIUME, 2021: 341). Le vicende inquisitoriali vanno allora considerate come micro-conflitti: “agenti di un mutamento antropologico maggiore: una radicale inflessione della civiltà occidentale in direzione di una concezione profondamente individualistica (e perciò già moderna) della libertà” (CAVAILLÉ, 2008: 637). A questo punto il lettore ha l’impressione di trovarsi davanti a uno studio di storia delle mentalità, in cui l’autrice coglie le trasformazioni in atto nella coscienza delle masse e le forme di resistenza, di repressione attuate da chi vorrebbe interrompere, nascondere, annientare questo processo. Un’indagine resa possibile grazie a una testimonianza pressoché unica, quei segni incisi dai detenuti per lasciare traccia di sé e, poiché alcuni disegni sono realizzati dai prigionieri utilizzando i propri liquidi organici come legante dei pigmenti, questa traccia è persino genetica. Potremmo allora osare e dare un titolo alternativo al saggio di Giovanna Fiume: Del Santo Uffizio in Sicilia e dei suoi prigionieri. Un’indagine sul punto di vista dei giudici e dei giudicati.

 

 

 

Bibliografia

 

Cavaillé, J. P., (2008). “Libertino, libertinage, libertinismo: una categoria storiografica alle prese con le sue fonti”. Rivista Storica Italiana, N° 2, pp. 604-655.

Fiume, G., (2021). Del Santo Uffizio in Sicilia e delle sue carceri, Roma: Viella.

Ginzburg, C., (1966). I benandanti. Ricerche sulla stregoneria e sui culti agrari tra Cinquecento e Seicento, Torino: Einaudi.

Lavenia, V., (2010). “Processo”. En A. PROSPERI (Coord.), Dizionario Storico dell’Inquisizione (pp. 1257-1263). Pisa: Scuola Normale Superiore.

Petrucci, A., (1985). “Potere, spazi urbani, scritture esposte: proposte ed esempi”. En Culture et idéologie dans la genèse de l'État moderne. Actes de la table ronde de Rome (15-17 octobre 1984) (pp. 85-97). Rome: École Française de Rome.

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Todesco, S., (1997). “Le dimore del sacro. Per una antropologia delle edicole votive”. En S. Todesco y G. Anastasio (Coords.), Iconae Messanenses. Edicole votive nella città di Messina (pp. 13-37). Palermo: Regione Siciliana.

Torre, A., (1995). Il consumo di devozioni. Religione e comunità nelle campagne dell’Ancien Régime, Venezia: Marsilio.

Zemon Davis, N., (2006). Trickster travels. A Sixtheenth-Century Muslim between Worlds, New York: Hill and Wang.



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